Repressione e fandonieCome riconoscere un dittatore fin dalle prime settimane di presa del potere

Olivier Guez spiega nel suo ultimo libro che il modus operandi dei despoti è sempre lo stesso: spegnere subito l’opposizione, disseminare le spie, cambiare la classe dirigente. E al popolo bisogna fare tante promesse di grandezza

REPORTERS/ Teun Voeten LaPresse Only Italy

Ogni capitolo di questo libro disseziona un dittatore al potere. Le prime settimane sono cruciali: deve imporre la sua volontà di potenza, restaurare l’ordine, trasformare la società in uno Stato caserma nel quale lui è il solo a impartire istruzioni, come un domatore.

L’opposizione viene immediatamente bandita, i media e gli intellettuali censurati, gli avversari esiliati, imprigionati, torturati, uccisi. Dissemina le sue spie per sorvegliare la società e spinge chiunque alla delazione. La guida suprema sorveglia anche i sorveglianti, così nulla potrà più sfuggirle.

E la popolazione capisce – anche prima di averne diretta esperienza – che ogni minima trasgressione sarebbe punita severamente: se ne stia tranquilla (soprattutto non s’immischi nelle questioni politiche), in tal modo potrà godere di alveoli di libertà, in famiglia, allo stadio, in riva al mare, ammassata nelle nuove case che il regime si accinge a costruire.

In parallelo, i seguaci del dittatore prendono in mano la polizia, l’esercito, i servizi segreti, e accedono alle più alte responsabilità. Lo accompagnano dagli albori del movimento e gli creano intorno una cricca protettiva. Ma nessuno può insediarsi in maniera durevole.

Il dittatore è abile a ordire intrighi tra i suoi accoliti e a manipolare le loro lotte di potere. Spesso separa le loro funzioni, e li promuove, li declassa, li ripromuove, fino a quando non decide di eliminarli. Nel giro di alcuni anni, tutti i dirigenti gli sono debitori del loro posto. Stanno sul chi vive: sanno che il capo dispone della loro vita e della loro morte.

Ma il Vojd non può limitarsi a spaventare e reprimere. Deve rimodellare la società, costruire città, ponti, autostrade (specialmente tra l’aeroporto e il suo palazzo). Deve offrire del pane alla plebe, esaltarne il coraggio, suscitare gioia e speranza facendo balenare un futuro grandioso – il Reich millenario, l’alba comunista dopo la lunga notte della rivoluzione, l’Africa unificata, l’islam purificato dalla cancrena della modernità… – un orizzonte sempre lontano che bisogna meritare con molti sforzi e molta sottomissione, scrive Elias Canetti in “Massa e potere”.

S’inebria di statistiche fantasiose, e mente, di continuo, e impunemente. “Pace” significa guerra, “solidarietà” significa egoismo, “amore” significa odio: svuota le parole della loro sostanza, o piuttosto le ritorce contro loro stesse.

Fa leva sul senso di persecuzione dei meno abbienti, che alimenta indicando un nemico mostruoso, una doppia minaccia: il “nemico sotto le mura” (all’esterno) e il “nemico nelle cantine” (l’opposizione, i traditori, i profittatori, tutti gli agenti di disgregazione che complottano contro la patria), nota Canetti.

Il dittatore scatena battaglie nel nome di un’immensa comunità, dei morti e dei vivi, fa in modo che passato, presente e futuro creino un fronte comune.

Li unisce ricorrendo ai miti fondatori – i romani, la reconquista, gli antichi popoli germanici, la guerra dei contadini, i samurai… – e cioè ai miti, «comunioni e promesse», secondo Roger Caillois. Il dittatore non parla mai al condizionale, usa sempre l’imperativo.

da “Il secolo dei dittatori”, a cura di Olivier Guez, Neri Pozza editore, 2020

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