Donald Mank Avevamo già conosciuto il trumpismo al cinema, in tv o da qualche altra parte

Il protagonista dell’ultimo film di David Fincher è chiaramente una rappresentazione del presidente americano sconfitto. Così come lo era quello di “Bob Roberts” negli anni ’90. E non sono gli unici esempi di personaggi simili al twittatore della Casa Bianca: non c’è nessun bisogno di seguire le notizie politiche, tutto quel che serve sapere dell’attualità è già stato detto qualche anno fa

AP/LaPresse

È verità universalmente riconosciuta che l’unico modo per dire qualcosa di rilevante sul presente sia fare un film in costume.

È anche per questo che da settimane tutti scrivono di “Mank”, il film di David Fincher che il pubblico non vedrà fino al 4 dicembre, allorché arriverà su Netflix. Certo, ci sono molte ragioni per parlarne.

È Fincher, che quando fa un film è sempre un evento.

È Fincher che ricostruisce la storia di “Quarto potere”, il film che quelli che ne capiscono ritengono il più bello della storia del cinema.

È Fincher che lo fa non focalizzandosi su Orson Welles – il wunderkind (è la parola che usa Mank) cui a 24 anni quelli che ci mettevano i soldi diedero qualcosa che altri registi a volte non ottengono in una vita: l’autorità assoluta sul progetto, il potere decisionale, l’esenzione dalle discussioni coi finanziatori – ma su Herman Mankiewicz, lo sceneggiatore quarantatreenne che scrive il film del bambino prodigio.

E soprattutto è “Quarto potere”, il film che ci spiegò il rapporto tra i media e il potere facendoci annuire fino a slogarci il collo nonostante continuassimo a non capirne nulla (continuiamo a sorprendercene, ottant’anni dopo).

Ho letto quasi tutto quel che è uscito in questi mesi, anche l’intervista che Fincher ha dato all’edizione francese di Première, quella in cui si è attirato accuse di lesa maestà per aver detto, di Orson Welles, un’ovvietà: «A 25 anni, mica sai quante cose non sai».

Non è solo perché in casa Fincher (la sceneggiatura è del defunto padre di David) si empatizza col protagonista del proprio film, nello scontro tra lo sceneggiatore e il regista di “Quarto potere”. Non è solo perché il Mankiewicz dei Fincher è un ultraquarantenne che borbotta «gli hanno dato il controllo totale, e poi ha compiuto 24 anni». Non è solo una questione generazionale.

È – mi sembra lunare non averlo letto da nessuna parte – che Mank è Trump, e Welles è Obama.

C’è quel tipo di tensione lì, che oggi che tendiamo alla semplificazione si chiamerebbe invidia: come si permette, quel ragazzino, d’essere così baciato dagli dèi?

C’è quel tipo di disfatta: «Alla mia età dovrei aver combinato qualcosa», borbotta Mank, ingessato, a letto, costretto a scrivere per l’insopportabile ragazzino di genio che si prenderà tutti i meriti.

E c’è quel tipo di cialtroneria. Fincher deve aver visto “Notti magiche”, il film di Paolo Virzì su quando, nella Roma di fine Novecento, si andava a bottega dai venerati maestri, e ce ne dà la versione hollywoodiana. Guarda, quello è Ben Hecht, lo sceneggiatore di “Notorious”. Guarda, quello è David O. Selznick, il produttore di “Via col vento”. E in mezzo ci mette uno dei due telegrammi più famosi della storia del cinema (l’altro è quello di Ingrid Bergman a Rossellini).

Quello in cui Mank scrisse a Ben Hecht (dice la leggenda) di sbrigarsi a raggiungerlo a Hollywood, «ci sono milioni pronti a essere guadagnati, e la concorrenza è costituita da idioti». È una frase che da sempre gli aspiranti sceneggiatori si ripetono, giacché a chiunque guardi una pasticceria da fuori sembra sempre che lavorare dietro le vetrine sia facilissimo: chi non fa i giornali saprebbe farli assai meglio, chi non fa i film pure.

Il guizzo dei Fincher è far arrivare un ragazzino che ha ricevuto il telegramma, fargli incontrare Joe (l’altro Mankiewicz, il fratello, quello di “Eva contro Eva”: “Mank” è un film in cui nelle famiglie si fa a gara di talento, proprio come a casa Trump), e fargli dire all’innocente ah, sì, ti avrà mandato il telegramma, la concorrenza è costituita da idioti, lo manda a chiunque sappia mettere tre parole in fila. “Mank” è cominciato da dieci minuti, e il Mank del titolo è già saldamente il miglior cialtrone protagonista: ve l’avevo detto che era Trump.

(«Sei mio parente, quindi pensano già tu sia un genio» è il viatico con cui Mank accompagna il fratellino alla sua prima riunione di sceneggiatura – probabilmente aveva mandato il telegramma anche a lui, e lui pensava d’essere speciale, e poi ha visto che mandava lo stesso telegramma a tutti, seduttore sfaticato, e ci è rimasto male come tutte le sedotte e abbandonate: che figlio di Trump scegliamo per l’immedesimazione? O è meglio il genero?).

Fino al 4 dicembre, però, il miglior prodotto hollywoodiano di cui disponiamo per raccontare il trumpismo (sia esso finito o meno: uno dei dibattiti meno appassionanti di tutti i tempi) resta “Bob Roberts”, il film del 1992 (l’anno in cui venne eletto Bill Clinton) in cui Tim Robbins è un cantante folk populista che si candida come senatore repubblicano (il democratico in carica è interpretato da Gore Vidal, e a un certo punto viene accusato d’aver insidiato una minorenne).

Bob Roberts, ci spiega un personaggio, «ha preso la figura del libero pensatore ribelle e l’ha capovolta: il ribelle conservatore». Quello che non le manda a dire, ma vuole che l’America torni quella d’una volta.

Alla fine (smettete di leggere se siete di quelli che non vogliono sapere come vanno a finire film che non vedranno mai), Bob Roberts vince simulando un attentato (neanche fosse un direttore di giornale italiano). A Gore Vidal, invece, sparano davvero. Ovviamente l’elettorato bobrobertsiano esulta per la morte dell’avversario, il che è satira ma è anche realismo: mica è vero che trent’anni fa il dibattito pubblico era più civile, era solo senza retweet.

Al cui proposito, la cosa più trumpiana che abbia mai letto è del 1950. È una lettera di Harry Truman pubblicata in una raccolta di lettere attorno alla musica (Musica, Feltrinelli) appena uscita.

Nel dicembre 1950 il presidente ha il trumpiano gusto di far esibire la figlia ventiseienne, che all’epoca faceva la cantante, alla Casa Bianca. Il giorno dopo il critico musicale del Washington Post scrive che la signorina non sa cantare.

Il presidente fa la trumpiana scelta di scrivergli una lettera d’insulti.

«Lei è un uomo da otto ulcere con una paga da quattro». Ma anche: «Un vecchio frustrato che avrebbe voluto poter raggiungere il successo». Ma anche: «Un giorno spero proprio d’incontrarla. Quando succederà lei avrà bisogno di un naso nuovo, di molte bistecche per occhi neri, e forse di un sospensorio al piano di sotto».

Com’eravamo più civili, quando i presidenti scrivevano una sola lettera di minacce e insulti invece d’una sequela d’isterici tweet. Quando i giornali potevano mettere la lettera in prima pagina e vendere copie a tutti quelli che volevano leggerla e mica se la trovavano sul telefono.

È verità universalmente riconosciuta che non c’è nessun bisogno di seguire le notizie politiche: tutto quel che serve sapere dell’attualità è stato detto ventotto, settanta, settantanove anni fa.

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