I transfrontalieri e il Covid La difficile vita dei pendolari tra Italia e Svizzera

Attratti dai salari più alti, molti italiani che lavorano nel settore sanitario o edile passano ogni giorno la frontiera per andare a lavorare nella Confederazione elvetica. Ma le condizioni dei treni sono pessime, il distanziamento non viene fatto rispettare e spesso anche il comportamento delle aziende non è all’altezza

Piero Cruciatti / LaPresse

I viaggi della speranza per i pendolari sui treni colmi fino al collasso senza distanziamento, finiscono poco più in là del confine, appena si sbuca dal tunnel del Sempione, lato svizzero. 

Dalle stazioni di confine come Domodossola partono i convogli verdi BLS, la società che gestisce il servizio passeggeri sulla tratta, fra il germanofono cantone Vallese e la provincia di Verbania. Il tunnel è attraversato dai frontalieri due volte al giorno, nel buio della stagione fredda, in carrozze affollate da muratori, baristi e lavoratori nelle fabbriche, attratti dalla Svizzera soprattutto in questo periodo di pil nazionale in ribasso, con la popolazione interna dedita allo smart working. 

I lavori a rischio li fanno gli italiani, portoghesi e albanesi, da sempre, soprattutto nei mesi della pandemia. Il personale di bordo è ridotto all’osso per problemi di organico, ma la macchina economica svizzera non concede rallentamenti. Le condizioni esasperanti non fermano questi lavoratori, nel 2020 si sono raggiunti i 70.078 “permessi G” per frontalieri, un record assoluto in tutte le province di Piemonte e Lombardia interessate dal fenomeno. 

I due treni aggiuntivi che sono stati messi a disposizione dalle autorità elvetiche, dopo mesi di battaglia su più fronti, sembrano essere una pezza troppo piccola per il problema. In alcuni casi l’affluenza del primo treno per l’Italia, alla sera, è comunque alta, poiché la stanchezza e la fretta di tornare a casa, fa ammassare ancora le persone, forse troppo fiduciose della protezione della mascherina facciale. Il conteggio svizzero dei positivi covid-19 conta 280mila casi totali con 2.244 positività confermate nel solo cantone Vallese nell’ultima settimana, 2.116 in Ticino. 

«Alcuni scelgono l’automobile piuttosto che il treno per prevenire i possibili contagi, ma percorrere la strada del passo del Sempione due volte al giorno d’inverno è dura, un’ora di strada fino a duemila metri di quota. D’altronde i treni hanno gli scompartimenti pieni, è uno schifo. Ed è così da inizio pandemia», confida Cristiano, operaio edile in canton Vallese. 

Ciò che spinge queste persone ad affrontare un viaggio in treno con il rischio di contrarre il covid-19 o di guidare per circa due ore al giorno tra i tornanti di montagna, sono le buste paga assai più pesanti rispetto a quelle italiane: un muratore pagato da un’azienda italiana lavora due mesi, forse tre, per guadagnare la somma del collega frontaliere. 

«A nessuno importa di noi, nessuna precauzione, abbiamo solo le nostre mascherine e poco altro. I casi di positività sui luoghi di lavoro sono molti, nell’indifferenza delle imprese elvetiche. Quando sali sul treno nessuno ti può rassicurare sulle condizioni di salute di chi sta dormendo sfinito affianco a te, o sul sedile di fronte. Senza il benché minimo distanziamento», racconta Massimo, muratore che spende 12 ore della sua giornata tra viaggio e lavoro, su e giù dai ponteggi oltreconfine. 

I controlli sulle normative anti contagio sono pochi, anche se la situazione varia da impresa a impresa. Simone, lavoratore nella nota meta turistica di Zermatt, minimizza: «Noi lavoriamo in un cantiere per la ristrutturazione alberghiera che vale svariati milioni di franchi. È dura, ma siamo rispettati. Il nostro è comunque lavorare in un cantiere “importante”, con centinaia di collaboratori, per cui forse siamo un poco più tutelati rispetto a realtà minori», prosegue. «Alcune situazioni ticinesi sono invece molto diverse, addirittura ad inizio pandemia alcuni superiori avrebbero chiesto agli operai di dormire in prossimità dei cantieri in improvvisate strutture, per evitare di portare il contagio in famiglia, alla sera. Spero che queste situazioni si siano regolarizzate, sono condizioni di lavoro primitive».

Quest’anno molti lavoratori frontalieri del comparto sanitario, soprattutto durante la prima ondata, sono stati invitati a restare in Ticino, questa volta in alberghi, addirittura con corsie autostradali dedicate per l’emergenza in corso. Adesso corrono il rischio di venire precettati dall’Italia. 

Anche i lavoratori di Rsa oltreconfine chiuse al pubblico hanno l’obbligo di restare sul luogo di lavoro più tempo possibile, settimane, ma anche mesi, per evitare un contagio fatale tra le fasce deboli della popolazione. Molti rimangono, per evitare il periodo di quarantena obbligatorio di 14 giorni prima del ritorno sul posto di lavoro.

Uno scoglio (normativo) ancora peggiore divide il nord dal sud delle Alpi. Le frontiere restano aperte per chi lavora all’estero, ma la procedura sull’utilizzo dei test a tampone è a due velocità, fra cantoni e regioni italiane, ed è l’ennesima incongruenza che getta nella confusione i lavoratori. 

Per l’Italia infatti, è il test è obbligatorio ad inizio e fine confinamento per i casi di positività asintomatica, mentre per i cantoni il tampone necessario è solo uno, quello iniziale: se dopo 10 giorni i sintomi non sono apparsi, le persone sono libere di ritornare alla vita di tutti i giorni. 

La complessità delle procedure italiane fa saltare addirittura posti di lavoro oltreconfine, poiché i frontalieri non possono tornare ufficialmente a lavoro senza gli esiti dei tamponi finali, che subiscono ritardi. Il risultato finale è che alcune persone hanno ricevuto contestazioni di assenze ingiustificate dal datore di lavoro o addirittura sono state licenziate per mancata presenza dopo i giorni previsti dalle norme elvetiche.

A questo si aggiunge la difficile situazione sanitaria in Svizzera, con le terapie intensive molto vicine al collasso. Varcare la frontiera per lavoro rimane una delle attività più a rischio, fra due delle aree maggiormente colpite dal covid-19 a livello europeo e forse globale.

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