Prima a Nizza, poi a Vienna. Di nuovo, l’Europa è finita al centro di sanguinosi attacchi di matrice islamica, stavolta avvenuti mentre si prendevano nuove decisioni di chiusure e lockdown. Gli attentati sono arrivati al culmine del confronto tra il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e, prima ancora, all’iniziativa dell’Eliseo di fronteggiare il cosiddetto «separatismo islamico».
Macron ha preso di petto la questione: esistono zone della Francia (ma non solo) dove non vige la legge della Repubblica, ma quella della sharia. Un fatto inaccettabile, a suo avviso, ma la presa di posizione ha scatenato reazioni e proteste, cui si è affiancata la decapitazione del professore Samuel Paty, colpevole di avere mostrato in classe le famigerate vignette su Maometto in nome della laicità e della libertà di espressione.
Jean Birnbaum, giornalista francese de Le Monde e autore di “Musulmani di tutto il mondo, unitevi! La sinistra di fronte all’Islam”, ha cercato di fare chiarezza sulla questione: da un lato ci sono organizzazioni terroristiche di matrice religiosa, dall’altro Paesi europei che non sanno come reagire. In mezzo, la cecità di molti intellettuali (di sinistra) che faticano ad ammettere il fattore religioso come molla scatenante della violenza. E i tentativi, forse vani, di un presidente ambizioso.
Quanto è efficace la dottrina Macron?
Non è semplice individuare, su questi temi, una “dottrina Macron”. Sembra però che ci sia una rottura marcata rispetto al suo predecessore, François Hollande, il cui discorso rientrava in ciò che io chiamo “non-c’entra-nientismo”. Quando la Francia è stata colpita dagli attentati jihadisti del 2015 (contro Charlie Hebdo e l’Hypercacher), il riflesso spontaneo del presidente Hollande, del suo governo e degli intellettuali che lo appoggiavano fu di proclamare, immediatamente, che gli attacchi non «C’entravano niente» con la religione in generale, e con l’Islam in particolare.
E si sbagliavano?
Di sicuro era un discorso che prendeva le mosse da una intenzione lodevole: aveva l’obiettivo di evitare stigmatizzazioni, cercava di non fare confusione tra l’Islam inteso come avventura spirituale da un lato e lo jihadismo come movimento sanguinoso. Ma questa posizione è pericolosa per almeno due ragioni.
E quali sono?
In primo luogo, perché è falsa. L’islamismo non ha niente a che vedere con l’islam, di cui è un avatar dogmatico e, a volte, sanguinario. Poi, perché è controproducente: abbandonarsi al «non-c’entra-nientismo» significa tradire tutti quei musulmani, teologi o semplici credenti, che si battono in tutto il mondo (spesso a rischio della vita) per sottrarre la loro fede dal dominio dei fanatici.
In questo senso Macron è un passo avanti?
Lui parla con chiarezza di terrorismo “islamista”. Su Al Jazeera, poco tempo fa, ha definito i jihadisti persone che infliggono una «deformazione» all’islam. Ecco, dire che lo jihadismo sia una «deformazione» omicida dell’Islam non è confondere le sue cose, anzi. È stabilire con chiarezza che esista piuttosto un legame. Per il resto, l’approccio di Macron va incontro a molte difficoltà.
E sarebbero?
La prima è che non prende abbastanza in considerazione il fattore propriamente religioso. Agisce ancora come se gli jihadisti fossero dei terroristi che «si servono» della religione – per usare una parola che ha impiegato nel suo discorso per Samuel Paty, il professore decapitato da un terrorista.
A quanto pare, Macron non riesce ancora a considerare la possibilità che queste persone, che uccidono in nome di Dio, siano davvero dei credenti, il cui rapporto con la realtà, con il corpo, con la veglia e con il cibo è orientato in maniera autentica dalla lettura dei testi sacri, una credenza messa in pratica. La seconda difficoltà sta nel limite nazionale di questa politica. La forza dei jihadisti è di fare rientrare la loro lotta in una visione religiosa, la quale per definizione non conosce frontiere. Il loro «separatismo» va oltre la sola «Repubblica» francese. Alla loro visione internazionale, violenta, sanguinosa, ma radicale e planetaria, non si può rispondere con una politica nazionale.
Lei ha fatto anche notare in altre occasioni che non si tratta di un fenomeno nuovo. Già al tempo della Rivoluzione in Iran si manifestava la stessa difficoltà di inquadrare la questione religiosa.
Proprio così. Lo dimostrano i testi che cito nel mio “Un silence religieux” (presto tradotto in italiano). Quando il filosofo Michel Foucault fu inviato in Iran nel 1978 dal Corriere della Sera all’inizio della rivoluzione islamica ebbe modo di osservare che, davanti ai suoi occhi, si dispiegava una rivoluzione la cui energia motrice era principalmente religiosa. Notò allora che i militanti che invocano i diritti umani o si rifanno al socialismo venivano subito spazzati via da chi, al contrario aspirava a far rinascere il regno di Dio. In Iran, in quel momento, il solo pensiero capace di innescare un incendio era la speranza messianica. Questo, diceva, noi Occidentali l’abbiamo dimenticato da secoli, anzi fa «ridere» i francesi. La risatina nei confronti del fenomeno religioso, spesso disinvolta, a volte preoccupata, è oggi una cosa generale. L’idea che esistono persone che uccidono in nome di Dio ci sembra un’ aberrazione, un arcaismo fuori luogo, qualcosa di assurdo. Allora ci si obbliga a credere che si tratti di persone con difficoltà, diseredati che cercano vendetta per risentimento sociale, pazzi, ignoranti. Eppure molti di loro spesso sono molto istruiti, a volte provenienti da famiglie agiate.
Come si spiega questa sorta di cecità?
Vorrei tanto capire in quale momento storico gli intellettuali e i politici hanno perso di vista l’idea che si possa prendere sul serio il fattore religioso come movente proprio e, insieme, tenere conto dei fattori politici e sociali – non si può certo negarne l’importanza. Ma se si svuota la dimensione religiosa rendendola un semplice sintomo o un puro pretesto puro, allora non si coglie qualcosa di essenziale.
Da quando ho pubblicato il mio libro, ho l’impressione che la situazione si sia un po’ modificata. Ci sono stati tanti morti, tanti traumi, tanta violenza, cose impossibili da ridurre alla frustrazione sociale. Questo non implica che si sia ritrovata la capacità di nominare il fattore religioso e il suo potere specifico, ma non si ride più, non lo si nega più (in ogni caso, non con la stessa facilità di prima). In generale, si preferisce tacere. Stare zitti è meglio che parlare a caso. È un silenzio che prelude a una presa di coscienza? Lo sa solo Dio!
Lei ha sottolineato che, pur di fronte a una regia internazionale degli attacchi, i Paesi bersaglio preferiscono pensare ai propri problemi interni. Cosa significa?
Che in Europa, dopo ogni attentato jihadista, la società che è stata colpita si spiega la violenza subita con questo o quell’altro problema nazionale. La sua prima reazione è di rimettersi in discussione: cosa c’è che non va in me? Se siamo stati attaccati, deve esserci qualche problema con la nostra tradizione laica – così dicono i francesi. Se siamo presi come bersaglio, mettiamo in discussione la nostra società multiculturale – così si rispondono i britannici. Si attiriamo tutta questa ostilità, allora dobbiamo cambiare il nostro modello di integrazione – così si allarmano i belgi.
Ed è un approccio sbagliato?
Ecco: è sempre un bene ed è sempre necessario affrontare questo genere di domande, perché le nostre società sono davvero logorate da ineguaglianze di ogni tipo e divisioni sociali. Ma gli ayatollah iraniani che hanno condannato a morte Salman Rushdie nel 1989 avevano ben altro in testa, non certo le discriminazioni qualche Paese europeo. I predicatori egiziani o qatarioti che hanno lanciato l’assalto al Jyllands Posten nel 2005 erano ben poco interessati ai destini degli immigrati in Danimarca. Gli emiri del Daech che hanno dato l’ordine di sparare a Charlie Hebdo, nel 2015, si facevano beffe delle diseguaglianze che erodono la società francese. E gli jihadisti che sono venuti per decapitare Samuel Paty o hanno provocato il bagno di sangue a Vienna sembrano assai poco preoccupati dalle discriminazioni «post-coloniali».
Hanno una agenda diversa, insomma.
Esatto. Colpiscono ovunque facendo gli stessi gesti e recitando gli stessi versetti. Quale che sia la loro origine sociale o culturale, tutti si rifanno a una guerra millenaria, uno scontro con l’Occidente che risale a molto tempo prima di qualsiasi colonizzazione. Del resto, a differenza dei militanti terzo-mondisti del passato, gli jihadisti fanno anche pochi riferimenti a questo periodo storico. Le sinistre occidentali, che si richiamano, a volte in modo un po’ frettoloso, agli studi «post-coloniali, continuano a mettere l’Occidente al centro del mondo e della storia. Ai loro occhi, tutto comincia e tutto si rifà alle conquiste occidentali, ogni problema geopolitico e ogni ingiustizia sociale. Ma i soldati del jihad, loro, si fanno beffe di tutto questo: vogliono distruggere l’Occidente, la sua civiltà, i suoi costumi, ma anche mettere fine ai suoi calendari, alle sue cronologie, alla sua storia. Questo è ciò che le sinistre europee non capiscono: mettere sempre al centro il colonialismo non è altro che un centrismo occidentale mascherato.
E allora veniamo alla Turchia, ai suoi recenti scontri con la Francia. Che ruolo ha nella promozione dell’islam politico?
So poco delle questioni specifiche della Turchia. Ciò che posso dire è questo: nella crisi attuale tra il mondo islamico e la Francia, la Turchia gioca il ruolo che aveva, fino a poco tempo fa, l’Iran nel caso Rushdie e dell’Arabia Saudita, del Qatar e dell’Egitto nel caso delle caricature danesi.
In che senso?
In tutte queste situazioni, quella rabbia cosiddetta spontanea dimostrata da intere masse del mondo islamico, in realtà, era orchestrata da Stati potenti e ricche organizzazioni islamiche. Tutti ricordano le calunnie, deliranti, che sono state diffuse sul tema «Rushdie uguale Satana» e del suo romanzo, che ben pochi di quelli che manifestavano avevano mai letto. Ci si ricorda anche del ruolo avuto da qualche imam installato in Danimarca ne far nascere, dal nulla, un caos internazionale. Durante un giro nel Medioriente, avevano agitato lo spettro di una Danimarca fautrice di una guerra contro i musulmani. Avevano mostrato delle caricature che, tuttavia, non erano state pubblicate da nessun giornale. Oggi Erdoğan ha scelto di riprendere quella parte di piromane falsario. Come gli imam di Copenhagen avevano sostenuto che la Danimarca facesse una guerra ai musulmani danesi, così lui diffonde l’idea, anche questa delirante, che i musulmani francesi vivano la stessa situazione, oggi, che vivevano prima della guerra gli ebrei in Europa.
Con quale scopo?
Con le sue questioni politiche cerca, a sua volta, di porsi come paladino di una galassia islamista che pretende di imporre ovunque il suo dominio, la cui forza di intimidazione è planetaria e riposa su una strategia ben riassunta da uno dei predicatori che avevano dichiarato la fatwa contro Salman Rushdie: «Noi rispondiamo sempre. E a volte rispondiamo per primi».
Una delle questioni chiave del dibattito è la libertà concessa a Charlie Hebdo di «offendere la religione islamica». Un lasciapassare che, a loro avviso, sarebbe «ipocrita» perché la severità adottata in genere contro vignette antisemite viene dimenticata quando il bersaglio della satira sono i musulmani. A questo proposito: esagera Charlie Hebdo? È davvero la libertà di blasfemia il punto della questione?
Per quanto mi riguarda, sono un vecchio lettore di Charlie, lo conosco da quando ero adolescente. Non mi piace in modo particolare il genere della caricatura, soprattutto quella oscena. Sono riuscito ad apprezzarle o trovarle riuscite, qualche volta. Ma in genere non mi piacciono granché. Che poi alcuni degli innumerevoli disegni pubblicati dal settimanale satirico siano di cattivo gusto, o siano proprio cattive, è evidente. Ma, appunto, non è questo il punto. Quello che conta è che Charlie abbia il diritto di pubblicarli, questi disegni, e che la loro pubblicazione non provochi una condanna a morte degli autori. In questo senso, le discussioni su Charlie e sulle sue supposte provocazioni non hanno molta importanza per chi vuole comprendere quello che oggi ci minaccia davvero. Come dicevo prima, gli jihadisti odiano l’Occidente, in blocco, e non si interessano a questa o quella specificità nazionale. Quando spargono sangue a Londra, non guardano alla tradizione multiculturale britannica. E quando colpiscono la Francia, non hanno in mente di castigare la sua libertà di espressione o il diritto a fare caricature. Del resto l’Austria, che ha appena subito un attentato, è ben lontana da questa tradizione.
E quindi qual è il punto?
Che gli jihadisti, ovunque, cercano di colpire quelli che considerano miscredenti, la cui sola esistenza rappresenta per loro uno scandalo. In che modo i passanti di Vienna possono avere offeso il Profeta, se non per il loro stile di vita? E in che cosa padre Hamel, sgozzato durante la messa a Saint-Etienne du Rouvray, si è comportato in modo blasfemo, se non servendo Cristo? Bisogna del resto ricordare, come hanno fatto i redattori di Charlie, che il loro giornale si è sempre fatto beffe di tutte le ideologie e di tutte le confessioni. E anche quando i loro disegni erano scioccanti non hanno mai subito minacce di morte da cristiani o da ebrei. «Stiamo preparando il numero 1.058 di Charlie», si difendeva Charb, il direttore. «E solo tre notizie hanno provocato scandalo, sempre sull’Islam. Possiamo disegnare il Papa che incula una talpa, e nessuno dice niente. Tantomeno si fa un processo». Insomma, non è solo l’islam a essere oggetto delle caricature di Charlie. Ma quelle che hanno provocato la morte dei loro autori sono soltanto quelle che riguardavano l’islam.