Energia
La materia di New York è l’energia. L’energia tuona nel fragore sotterraneo del metrò, zampilla in solfatare nel mezzo delle carreggiate. L’energia marcia sul suolo potente, tranquilla, pesante.
A differenza di Parigi, dove sono ammessi soltanto nella periferia urbana, gli enormi camion a rimorchio attraversano Manhattan. L’energia si consuma, brucia in un favoloso sperpero elettrico che lascia accesi per tutta la notte i grattacieli vuoti e gli uffici deserti.
L’energia irrompe sul, nel e attraverso il denaro. Money, money, money. È l’ossessione del capitalista, del middle class, dell’emigrante, del portoricano. Guadagnate, spendete, economizzate, tutto è tradotto in termini di denaro, e tutto trae energia dal denaro. Affari, furto, corruzione, donazioni, fondazioni, accattonaggio, l’advertising si mangia le sessanta pagine quotidiane del New York Times, relegando le informazioni su scarne colonne. L’argento vivo corre alla velocità della luce, bypassa la banconota, l’assegno, magnetizza la carta di credito.
Di notte, la città non può essere totalmente addormentata. Il metrò corre, alcuni cinema restano aperti, qualche rete televisiva continua a trasmettere i suoi programmi, dei negozi restano aperti fra cui quelli della frutta con esposizioni che traboccano sui marciapiedi.
L’energia è nell’aria; una scintilla elettrica crepita improvvisamente fra due mani che si sfregano. Ed è proprio l’energia della città che si esprime nell’erezione permanente dei grattacieli, continua nella distruzione di interi isolati, nella costruzione di nuovi buildings che, con le due torri gemelle del World Trade Center, salgono sempre più in alto nel cielo, per ricordarci che siamo sia a Babele sia a Babilonia.
Ma che l’energia della terra e delle pietre non faccia dimenticare l’energia del cielo. Che cielo immenso, che vento potente quando si mette a soffiare!
Piroetta cosmica: il vento dell’oceano è carico di iodio; il vento dell’est è quello della prateria; quando si volge a sud, è la pesantezza tropicale del golfo del Messico che si abbatte su New York; quando va verso nord, arriva la Groenlandia. Il vento a Parigi arriva tutto rattrappito, temperato, molto Île-de-France. Qui, ha il suo carico d’infinito.
Gruppi di gabbiani e di piccioni giocano nel vento. I piccioni di New York non sono i grossi pedoni tranquilli e imbranati di Parigi, sono “gabbianizzati”, volano con ebbrezza. Il cielo è popolato, abitato, vivo, brulicante. Gli elicotteri vanno in tutte le direzioni. Gli aerei si susseguono. La notte, sono stelle in marcia.
Vi sono punti privilegiati, momenti particolari, stati d’animo in cui si sente che tutte le energie del sottosuolo, del suolo, della pietra, del metallo, dell’aria, della città, del cielo si mescolano in un turbine termodinamico.
Perché la città è sempre in piena autocreazione ed è già in piena autodistruzione. È più che mai in pieno slancio, è tutta un ponteggio. Ma già, al tempo stesso, le carreggiate si spaccano, l’accumulo dei rifiuti e della sporcizia si riesce a malapena a riassorbire, settori interi sono in decomposizione, non solo nel Bronx, a Brooklyn, ma anche nell’Uptown, nel Lower East Side.
Qual è il legame fra questa ricreazione perpetua di ordine e questo disordine enorme, mortale? Il capitalismo, certo, ma a condizione che questo termine non riduca l’enorme complessità del fenomeno a una parola vuota: questo capitalismo hic et nunc deve essere spiegato, e non disidratato in una parola che spiegherebbe tutto.
Tutto ciò che vi è di più fantastico, di più fantasmatico a New York è quel che vi è di più materiale – i suoi edifici, i suoi scambi, i suoi prodotti – e di più energetico – le sue attività che non vanno mai a dormire. È l’eccesso di realtà di New York che ha la potenza ribollente ed eccessiva del sogno.
È la sur-realtà di New York. E qui non bisogna prendere il termine di sur-realtà nel solo senso degradato di assemblaggio bizzarro ed eteroclito. Bisogna prenderlo nel senso del surrealismo originario che ha sentito, indovinato la creatività del caso, dell’inconscio al lavoro. Ed è questo che ci fa vedere New York, dal momento in cui si accede al secondo grado di veggenza: una formidabile distruttività/creatività inconscia e aleatoria, che produce una realtà il cui unico riferimento non può essere che l’immaginario.
Babele moderna e Babilonia antica
New York è la città moderna, ma non è la più moderna delle città. C’è una quota più ingente di nuovo, vi sono le capitali di un futuro già passato, dello stile Le Corbusier, vi sono città piene di gangli che gravitano attorno a una rete autostradale. New York è una città né nuova né antica, è la città dei tempi moderni.
Moderna nel senso che la città è davvero planetaria: capitale dell’Onu, essa è l’immagine dell’Onu, un aggregato di popoli, razze, culture. Ogni percorso nel metrò è un viaggio favoloso attraverso la diaspora umana. È un mondo multicolore quello che brulica a New York: si è, si vive, alla dimensione del pianeta, al ritmo dei tempi moderni. Ma questa Babele della modernità è al tempo stesso, e proprio per questo, l’ultima delle metropoli dell’Antichità, come l’Alessandria ellenica, la Roma imperiale, la Babilonia caldea, la Istanbul ottomana, New York è la città cosmopolita: neri, portoricani, asiatici, italiani, ucraini, siriani, sono tutti là.
Ciascuno degli alveoli della città ipermoderna ci rivela improvvisamente un mondo molto vecchio, molto anziano: botteghe sordide oltre la Vistola, frammenti enucleati dell’impero austroungarico della fine del secolo scorso, della Napoli e della Sicilia degli anni 1920, nell’East Side c’è una baraonda di bazar, di banconi di caravanserragli, è la giusta posizione dei meticci di ogni dove e di ogni pelle.
Hanno sommerso la razza dei pionieri, dominatrice; Babele-Babilonia sono loro e in prima fila, i più cosmopoliti dei cosmopoliti, i più meticci dei meticci, gli ebrei, che portano in sé non soltanto la loro stella di David errante strappata al cielo della Giudea e immersa nel fango dei ghetti (stella che, all’altezza del viso, nelle vetrine indica il cacherout), ma anche, in loro, le vecchie culture slave, germaniche, arabe, ispaniche. L’estrema monotonia del quadrilatero urbano rivela la straordinaria varietà dell’umanità.
La città mostro
New York mescola e macina. Distrugge le strutture nazionali degli immigranti, ma rafforza le strutture arcaiche delle culture sradicate. Il melting pot strappa tutto a grossi pezzi e gli individui si aggrappano alle placente culturali, agli alimenti matriciali; ciò che si ricostituisce è dunque un universo arcaico di clan, di tribù, di mafie; ciò che si costituisce sono piccole isole etno-territoriali di edifici, di polpettoni di case. L’individuo è al tempo stesso atomizzato e aggrappato alla sua piccola comunità neoarcaica. Quelli che non trovano la propria comunità vengono quindi rifiutati, distrutti.
Fuori dalla comunità arcaica, nelle grandi arterie, nel metrò, gli individui sono globuli trascinati nel flusso enorme; sono automi che camminano con lo sguardo fisso, senza alzare gli occhi su nessuno. Quelli che non hanno comunità si trascinano, errano, cadono.
La solitudine della miseria e la miseria della solitudine ossessionano le strade di New York con gli esclusi, i dementi, i drogati che ridono o piangono da soli, che gridano per tutti e per nessuno, che sbavano, sanguinano.
La città non eterna
Niente parla di eternità in questa città. Niente ha radici nel passato. Niente sembra dover sfidare il tempo. Tutto perisce, tutto rinasce, tutto vive nel tempo, in questo tempo. La bellezza di New York è una bellezza mortale.
Questa città è stata costruita per la sua funzione, per il profitto, per l’economia; tutta l’edificazione è stata guidata soltanto dalla geometria e dal caso. Ed è questo il capolavoro. Manhattan, da qualunque prospettiva la si guardi.
La vera arte newyorkese non sono i musei, i concerti, le mostre ecc. Tutta quest’arte mondiale è stata attirata, comprata, consumata, intrattenuta (fondazioni ecc.) a New York. Ma la vera arte di New York è nella sua surrealtà, nell’autocostruzione/distruzione permanente, nel suo carattere incredibile, evidente, delirante.
Non c’è un’arte di vivere a New York. La vita è piatta, rituale. Le parti sono stereotipate. Tutta la creazione culturale è avvenuta in California. Greenwich Village è stato un centro di bohème e poi un pallido riflesso, provvisorio, della nuova cultura.
La città è geniale, ma ha succhiato il genio dai cervelli. La città è un capolavoro e le vite sono penose. La città si consuma, gli individui consumano. Ma se ti lasci possedere dalla città, se ti sintonizzi sul flusso di energia, se le forze della morte che sono lì per stritolarti risvegliano in te la voglia di vivere, allora New York ti psichedelizza.
Tutto e niente
Città antica, città moderna, città planetaria, città del Medioevo, città dell’età del ferro, città di bellezza, città di solitudine, città d’estasi. Tutto ciò sono le sfaccettature della stessa città-mostro. C’è tutto a New York. A New York, ho sentito l’estasi del tutto.
E tuttavia, continuamente, penso alla frase di Mailer: sono lì, undici milioni, di tutte le etnie e di tutte le culture, venuti da tutti i continenti, e tuttavia non succede niente. Ci penso nel metrò, quando vedo tutti questi volti sconvolgenti, intenti, giustapposti, senza il minimo contatto, senza il minimo sguardo; ci penso per la strada, dove nessuno si guarda; penso a questo ammasso genetico inaudito, il più favoloso raggruppamento di geni che non agita nessuno shaker, che non mescola nessun cocktail, poiché la mescolanza è marginale, infima rispetto alle possibilità di un’umanità meticciata.
Si comprende che New York non è già più l’America, non è ancora il pianeta, è un’isola fra l’America e il pianeta, un’Atlantide ancora nella sua matrice.
E concludevo, in questo autunno 1973: se vuoi meditare sui bassifondi della povertà e sul delirio della ricchezza, sul presente e sull’avvenire dell’uomo, sul mondo, il niente e la creazione, se vuoi sentire il disastro e il genio della vita, se vuoi sapere a che punto la ragione non ha più senso, non andare sull’Himalaya o sul Machu Picchu. Vai a New York.
da “I ricordi mi vengono incontro”, di Edgar Morin, Raffaello Cortina Editore, 2020, 736 pagine, 34 euro