Trentatré anni dopo quel primo referendum del 1987 – seguito da un bis referendario nel 2011 – che sancì l’addio dell’Italia all’energia nucleare, la Commissione Ue ha notificato al nostro Paese l’attivazione di una procedura di infrazione per non aver ancora adottato un programma nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi conforme ai requisiti previsti dalla direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio europeo.
In altre parole, l’Italia non ha ancora idea di come gestire gli oltre 30mila metri cubi di rifiuti nucleari sparsi sul territorio, nonostante le centrali nazionali siano chiuse definitivamente dal 1990. Gli Stati membri erano tenuti a recepire la direttiva entro il 23 agosto 2013 e a notificare i loro programmi nazionali per la prima volta alla Commissione entro il 23 agosto 2015. Italia, Austria e Croazia non lo hanno fatto, e adesso gli rimangono solo due mesi per rispondere alla Commissione, che in caso di una risposta non soddisfacente può decidere di inviare un parere motivato (secondo stadio della procedura d’infrazione comunitaria che può concludersi con un ricorso alla Corte europea di Giustizia).
In più, ricorda la Commissione Ue, i rifiuti radioattivi «derivano dalla produzione di energia elettrica in centrali nucleari, ma anche dall’uso di materiali radioattivi per scopi non legati alla produzione di energia elettrica, tra cui scopi medici, di ricerca, industriali e agricoli. Questo significa che tutti gli Stati membri producono rifiuti radioattivi».
La debolezza della politica italiana è tutta qui. Ad oggi, come riporta l’Ispettorato per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), i 30mila metri cubi di rifiuti nucleari sparsi in 7 regioni sono solo una parte di un quantitativo iniziale: circa il 99% del combustibile esaurito, utilizzato nelle quattro centrali nucleari nazionali dismesse (Latina, Caorso, Garigliano e Trino Vercellese), nel corso degli anni è stato inviato in Francia e in Gran Bretagna, dove è stato sottoposto a riprocessamento. Entro il 2025, però, è previsto il rientro di tutta la quota delle scorie. Che con sé riporterà a galla un interrogativo inquietante: dove mettere questi rifiuti? Dovrebbero finire in un unico deposito nazionale, per un progetto che si aggira su 1,5 miliardi di euro.
Nessuno però è a conoscenza di dove sarà realizzato il deposito, in quanto scomparso dai radar del governo. A inizio 2015 Sogin (la società pubblica incaricata del decommissioning) ha consegnato a Ispra (l’autorità di controllo ambientale) e al governo Renzi la proposta di Carta delle aree potenzialmente idonee, con all’interno 100 possibili siti pronti a ospitare il deposito. Il 16 aprile dello steso anno i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente hanno rimandato la palla a Sogin e Ispra, per concedersi due settimane per le valutazioni conclusive. Quelle due settimane sono diventate 5 anni, e del deposito nazionale neanche l’ombra. Si deve inoltre considerare che per costruire il deposito ci vogliono dai 7 ai 10 anni anni di lavoro. Morale della favola: per la scadenza prevista nel 2025 per il rientro dei rifiuti è praticamente impossibile che il nostro deposito nazionale possa essere pronto.
Il triste primato per la regione con il maggior volume di rifiuti invece spetta al Lazio, con 9.311 m3, pari al 30,13% del totale; a seguire la Lombardia (19,61%), il Piemonte (17,82%), l’Emilia Romagna (9,71%), la Basilicata (10,4%), la Campania (9,59%) e la Puglia (2,75%). Rifiuti nucleari di ogni forma, dimensione e tipo, nascosti spesso nei luoghi più impensabili. In Piemonte per esempio è accumulata la maggior quantità di scorie nucleari in termini di radioattività. Tante scorie, e cattive. Nel Lazio è accumulata la maggior quantità di scorie atomiche in termini di volume occupato: non cattivissime, ma in grandi quantità.
La radioattività di queste scorie decade a valori trascurabili nell’arco di 300 anni. Un arco di tempo nel quale la situazione non promette certo di migliorare. Il report dell’Isin avverte infatti che oltre ai 30mila già prodotti, nei prossimi 50 anni il totale dei rifiuti nucleari potrebbe arrivare a 78mila metri cubi. Di cui 50mila rappresentano l’eredità degli impianti nucleari italiani in via di smantellamento e gli altri 28mila arrivano dalla ricerca, dalla medicina nucleare (per esempio dalle lastre) e dall’industria (per i quali l’Isin stima un produzione su base annuale di circa 300 metri cubi).
Infine c’è il nodo permessi. L’attività di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi in Italia è affidata alla Sogin, con costi individuati in 7,2 miliardi di euro. Mentre a livello europeo i costi correlati sono cresciuti fino a 566 miliardi di euro. La società sin dal suo ingresso in campo ha denunciato ritardi nell’ottenere autorizzazioni per i cantieri dagli organi di controllo, il che si traduce in un incremento generale dei costi. Un esempio è la centrale di Latina: di cui solo lo scorso 21 maggio è stato incassato il via libera per l’intervento di smantellamento, dopo un tempo di attesa di 23 anni, visto che la richiesta era stata fatta nel 1997 quando il gestore era ancora l’Enel.
Non è un caso quindi se quest’ultima procedura di infrazione europea non è la sola in corso per l’Italia: c’è quella 2016/2027, concernente la mancata trasmissione del programma nazionale per l’attuazione della politica di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, e la 2018/2044 per la mancata attuazione della direttiva 2013/59/Euratom, che stabilisce le norme fondamentali di sicurezza relative all’esposizione alle radiazioni ionizzanti.