«La verità ci rende liberi». Esemplato inequivocabilmente sulla celebre pericope giovannea, il titolo del libro-intervista di Paolo Rodari con Alberto Maggi (Garzanti, Milano 2020, 168 pp.) disvela immediatamente a quale livello l’autore voglia condurre il lettore o la lettrice.
L’ambito è identico a quello di altre pubblicazioni consimili del vaticanista. Vale a dire il cristianesimo nel senso più ampio del termine, declinato ora attraverso esperienze esorcistiche, come nel caso dei due libri-intervista con don Gabriele Amorth, ora attraverso il magistero bergogliano, affrontato con Víctor Manuel Fernández, il teologo del Papa, e con il defunto cardinale Dionigi Tettamanzi, ora attraverso il vissuto eremitico e mistico di donne quali Antonella Lumini e Angela Volpini.
Ma questa volta Rodari, che, dopo aver lavorato al Riformista e al Foglio, è dal 2013 alla Repubblica, ha perseguito un progetto molto più ambizioso. Ha infatti realizzato «un libro che, partendo dal Nuovo Testamento, cercasse di mostrare il volto autentico di Gesù di Nazareth e cosa significhi seguirlo oggi».
Per farlo, il giornalista milanese, consapevole di essersi troppo spesso imbattuto «in visioni contrapposte di Gesù» e «in una Chiesa che arriva a proporre un Dio tiranno, che dall’alto dei cieli decide del destino degli uomini senza tener conto di loro, del loro vissuto, delle loro differenti condizioni di vita», si è rivolto a un maestro controcorrente: il biblista servitano Alberto Maggi, che sulle alture di Montefano (Mc) dirige, insieme col confratello Ricardo Pérez Marquez, il Centro studi biblici Giovanni Vannucci.
Ed è proprio la conoscenza approfondita dei testi di Vannucci che ha portato Rodari a entrare in contatto con Maggi, la cui esperienza religiosa e intellettuale si ispira a quella del dotto esegeta e teologo dei Servi di Maria, maestro di David Maria Turoldo e intimo di Don Milani, guardato a lungo in vita con sospetto dalle autorità ecclesiastiche e spesso liquidato come eretico.
L’anconetano Alberto Maggi, 75 anni, ha studiato a Roma presso il Marianum e la Gregoriana e a Gerusalemme presso l’École biblique et archéologique. A farlo conoscere e apprezzare su scala nazionale non solo l’impegno nella divulgazione degli studi biblici, ma anche la proverbiale schiettezza nel parlare, l’idiosincrasia al potere, la passione per una Chiesa da ricondurre alla forma originaria. Arrivando per questo a bacchettare Oltretevere e vescovi, quando il loro annuncio del messaggio evangelico si discosta dal genuino significato e si trasforma in fardello insopportabile per i fedeli.
Maggi viene sollecitato dalle domande di Rodari su cinque temi: l’essere religioso oggi; la figura di Gesù; la nascita; il male; l’omosessualità. Ma padre Maggi non si sottrae dal rispondere con chiarezza e parresia.
Sull’omosessualità, in particolare (pp. 139-152), il servita sviluppa quanto precedentemente dichiarato in altre interviste. A partire dalla severa critica verso la Chiesa, che «con la rigidità della sua dottrina, ha un grave peso sulla sua coscienza e dovrà rendere conto della sofferenza causata agli omosessuali per la sua ottusità, e dei tanti che, non reggendo l’oppressione del senso di colpa, si sono tolti la vita. Il magistero ecclesiastico dovrà chiedere scusa per essersi arrampicato sugli specchi, senza alcuna autorizzazione da parte del Cristo, per escludere, emarginare, perseguitare persone colpevoli di amare persone dello stesso sesso».
Al riguardo Maggi pone un parallelismo con i mancini considerati per secoli dalla società e dalle gerarchie quali «ritardati mentali, tendenti al suicidio e alla delinquenza, legati all’alcolismo eccetera. Essere mancini voleva dire essere sbagliati, perché la normalità era essere destri. La Chiesa ci mise la sua definendo la mano sinistra “la mano del diavolo” e, nel linguaggio comune, mancino e sinistro hanno assunto connotazioni negative (tiro mancino, un sinistro eccetera). Fino alla prima metà del secolo scorso, i mancini erano violentati, obbligati, contro la loro natura, a usare la mano destra a forza di bacchettate sulla povera mano sinistra. Poi, finalmente, la società si è evoluta, la scienza pure, e si è arrivati alla conclusione che nell’essere mancini non solo non c’è nulla di sbagliato, ma forse si ha una chance in più, si è più creativi, come Beethoven, Einstein, Raffaello, tutti mancini».
Da qui la previsione che «forse un giorno la Chiesa arriverà a considerare l’omosessualità non più come una malattia, una tendenza peccaminosa, ma semplicemente come una variante della sessualità e forse una chance in più dell’essere umano».
Secondo il biblista di Montefano, cui il regista Bruno Di Marcello ha recentemente dedicato il film “Un eretico in corsia”, la Chiesa nella sua componente gerarchica potrà arrivare a ciò, in primo luogo, tacendo «per qualche tempo su tematiche che non le competono, per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo, e sulle quali, quando è intervenuta, ha prodotto solo disastri e causato tanta sofferenza». Ma anche rifuggendo da una lettura letteralista e fissista dei passi scritturali in materia.
Ad esempio, spiega Maggi, «per quel che riguarda i testi di Paolo, anche lui risente della cultura del tempo, dove non avendo la nozione di omosessualità, ovvero la normale attrazione che si può avere per una persona dello stesso sesso, si vedeva questo come un delitto. Pertanto i brani delle lettere nei quali Paolo condanna certe depravazioni sessuali vanno presi per quel che sono: condanna di perversioni.
Sconosciuto a quel tempo il termine etero come lo era omosessuale, un uomo che si unisse con un altro uomo era semplicemente uno che deviava dalla sua natura per provare nuove emozionanti passioni».
Quale peso hanno dunque le dichiarazioni dell’apostolo in materia? «Lo stesso valore – asserisce il biblista – di quando afferma che, nella preghiera, “l’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo” (1 Cor 11,7), smentendo di fatto il Libro della Genesi dove si afferma che “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). Paolo, per le sue confuse traballanti argomentazioni, si rifà al concetto di “natura”, affermando, con tutta sicurezza, che è “la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere” (1 Cor 11,14-15), attribuendo alla natura gli usi e costumi culturali di un determinato popolo».
Insomma, un testo scomodo quello di Rodari-Maggi, che sicuramente non farà dormire sonni tranquilli a chi è abituato a recepire pigramente una stantia interpretazione dei testi sacri anziché lasciarsi mettere in discussione dal contenuto sempre nuovo degli stessi.