La scoperta dell’azione di Lish sui testi di Carver da una parte può inquietare chi (e non sono pochi) aveva preso i racconti di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” come modello della cultura narrativa contemporanea.
Molti, infatti, considerano Carver come il padre del «minimalismo», cioè del modo di pensare l’arte dello scrivere in termini di essenzialità espressiva, di intrecci che si sviluppano in piccole scene di vita quotidiana e di contesti d’ambiente che rigettano i grandi spazi aperti del romanzo americano classico, preferendo gli interni domestici, gli shopping center e altri luoghi simili.
Carver è stato anche un modello di riferimento, quando non direttamente docente di scrittura creativa, per scrittori come Jay McInerney, Breat Easton Ellis, David Leavitt. Non dimentichiamo però che Carver stesso si è sempre opposto a vedersi attribuire il ruolo di «padre» di questo filone espressivo, come si è detto.
Tess Gallagher preferisce dire che egli era non un «minimalista», ma un «purista» e anzi che il suo «mondo interiore» era, al contrario, «massimalista». Altri lo definiscono un «precisionista» e quest’ultima pare la definizione più pertinente.
La precisione del dettaglio, eliminando ogni approssimazione, è usata per stabilire una realtà e rendere reali le emozioni, non per dipingere una situazione astratta, rarefatta o sentimentale.
Lo stesso scrittore ne dà la spiegazione alla luce della seguente frase di Maupassant: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto». Carver rimase colpito da questa frase come fosse una rivelazione, perché è ciò che intese fare nei suoi racconti: «Mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore venisse trascinato dentro e coinvolto nella storia, e non potesse distogliere lo sguardo dal testo a meno che non gli andasse a fuoco la casa».
La cura del dettaglio capace di rendere una visione della realtà dunque non è solamente questione di stile: «È il tipo di firma inconfondibile e unica che lo scrittore lascia su qualsiasi cosa egli scriva. E ne fa il suo mondo e nient’altro».
Per fare ciò Carver aveva bisogno di sviluppare un metodo, uno stile; ne aveva bisogno per un’evidente questione di crescita artistica personale; ma ne aveva soprattutto bisogno nella misura in cui uno scienziato ha bisogno di uno strumento affidabile che gli consenta di indagare il proprio oggetto.
Carver aveva probabilmente capito che per raccontare davvero la sua gente non poteva adottare un linguaggio qualunque. Avrebbe bensì dovuto fare proprio il modo di vita di quella gente; trasferire sulla carta il loro modo di vedere il mondo; assumere lo stesso sguardo e atteggiamento. Adottare, insomma, per lo scrivere lo stesso stile che quelle persone adottavano per il vivere. Umiltà ed essenzialità.
E lo stile di Carver è divenuto allora quello di chi si tiene un passo indietro, di chi racconta senza dare giudizi sulle azioni dei propri personaggi e soprattutto di chi narra rinunciando ai suggerimenti al lettore, rinunciando ad accompagnarlo durante tutta la narrazione. Viene insomma a mancare quella voce narrante e onnisciente che continuamente suggerisce, spiega e semplifica, perché sono gli stessi personaggi a raccontarsi e dinanzi a essi il lettore è solo, lui e la storia, null’altro.
Carver capì che il suo stile doveva essere scabro, diretto, privo di lirismo; doveva adottare il linguaggio di chi vuole solamente dire e descrivere, mai giudicare o commentare, un linguaggio umile, fatto anche di pause e di silenzi, ma non per questo meno efficace o meno narrativo, meno lirico o poetico. Anzi. Carver sapeva che per sprigionare poesia e sentimento puro bastava lasciare che quella gente – i suoi personaggi – parlassero: non serviva altro, bastava lasciarli liberi di parlare e raccontarsi.
Nella lettura dei testi originali, cioè nella forma precedente gli interventi della penna di Lish, emerge il volto di uno scrittore che francamente stupisce forse meno, ma piace di più: un Carver che conferma il suo stile, ma è più lirico, colpito dal male nel profondo.
Un Carver insomma che, come si è detto prima, sta dalla parte del cattivo, non per dare ghiaccio ai già freddi racconti, ma per una sorta di compassione, dimostrando il volto umano e tragico, sofferente e dolente persino del malvagio.
Si tratta di uno scendere in quello che può essere definito, in un certo senso, un «inferno» e comprendere di trovarsi accanto ai propri simili.
Per questo Carver, se fa dell’umorismo, sostanzialmente non è mai ironico, non assume quell’atteggiamento di connivenza tra scrittore e lettore che in fondo si prende gioco dei suoi personaggi: non può fare ironia facile su personaggi che rappresentano il suo ambiente, sé stesso e in qualche modo anche la propria esperienza: «Devo aver cura per la gente nelle mie storie. È la mia gente».
da “Creature di Caldo Sangue e nervi. La scrittura di Raymond Carver”, di Antonio Spadaro, Edizioni Ares, 2020