Da tempo viene ricordato, con un certo allarme, che le canzoni stanno diventando più brevi. Negli anni ’90 superavano i quattro minuti, a volte anche di più. Ora si arriva a una media di 2 minuti e 30. Tutta colpa dello streaming, pare, e del suo sistema di remunerazione dei cantanti, che privilegia la quantità degli ascolti di una canzone e non la durata. Tutto questo avviene mentre, in altri settori, si assiste al fenomeno inverso: libri e film stanno diventando sempre più lunghi.
Gli esempi sono tantissimi: da “Tenet”, che supera le due ore e mezza, al nuovo James Bond “No Time To Die” – rimandato a chissà quando per la pandemia – che comunque raggiunge le 2 ore e 43 minuti (quasi un quarto d’ora in più rispetto a “Spectre”, del 2015, finora il più lungo della serie), per non parlare del mondo dei blockbuster, in cui “Avengers: Endgame”, del 2018, supera le tre ore.
Lo stesso vale per i libri, e basta guardare cosa (e quanto) scrive Hilary Mantel nel suo “Lo specchio e la luce” (appena uscito in Italia per Fazi, 1000 pagine tonde), o a “Bianco letale”, di JK Rowling sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith, del 2019, che arriva quasi a quota 800 pagine. “Il sussurro del mondo” di Richard Powers, vincitore del premio Pulitzer nel 2019, conta solo 658 pagine, Ne “Il cardellino” di Donna Tartt sono 892, e batte di poco “Prima di noi” di Giorgio Fontana, 886. Perché è tornato di moda il volumone? Perché si va al cinema (quando si può) per i filmoni?
Il Guardian si premura di ricordare che quantità non vuol dire sempre qualità. Non solo, come spiega la scrittrice di gialli Val McDermid, «a volte film e libri si meritano di essere lunghi», ma molto più spesso siamo di fronte a casi di «auto-indulgenza, di editing mancato». Secondo lei è colpa degli editori, poco tenaci di fronte agli autori che li fanno guadagnare di più, e di conseguenza meno inclini a sforbiciate dolorose. Un altro motivo può essere la maggior diffusione di tablet e e-reader, che grazie al formato digitale permette di trasportare opere lunghe con più facilità, mentre contribuisce il fatto che il libro sia sempre di più usato come regalo. Si fa miglior figura se le dimensioni sono consistenti.
In più c’è lo spirito del tempo, che non è una spiegazione, certo, ma la registrazione del fatto che, dichiara la Penguin, nel 2020 sono aumentati i lettori di classici come “Middlemarch”, di George Eliot, o di “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj. Entrambe opere imponenti. Il desiderio di lunghe saghe familiari, storie complesse e di ampio respiro tradurrebbe il bisogno di letture durature, di punti di riferimento saldi nel tempo, in contrapposizione alla stringatezza dei post sui social network. L’epoca della brevità, della brachilogia di Raymond Carver o del racconto (culminata con il Nobel nel 2013 ad Alice Munro) sembra tramontata.
Per i film il discorso è diverso. Le esigenze estetiche di grandi capolavori come “La sottile linea rossa” giustificavano le quasi tre ore cui erano costretti gli spettatori in sala. I film più recenti, invece, sembrano studiati per un pubblico avvezzo alla fruizione delle serie tv: cioè a pezzi, con pause, senza la necessità di una visione unica e prolugata. La durata, dal momento che può essere modulata a seconda dei bisogni, non rappresenta un problema.
A tutto questo va aggiunta anche una questione tecnica: la produzione è cambiata, e con l’impiego dei mezzi digitali il costo del materiale girato è crollato, aumentando la quantità. Per i montatori, è difficile tagliare più di tanto. Un altro aspetto da notare è che perché spesso le riprese cominciano prima ancora di finire il lavoro di rifinitura (e tagli) della sceneggiatura. Capita allora di ritrovarsi con scene già pronte che, in realtà, non avrebbero mai dovuto essere girate. Che si fa? Si tengono, allungando il risultato finale.