Donald Trump nel 2016 fu eletto presidente promettendo un muro al confine che avrebbe fatto pagare ai messicani, pompando le paura per una immigrazione ispanica da lui presentata come piena di criminali, e attaccando l’accordo di libero scambio del Nafta con Canada e Messico come «uno dei peggiori accordi mai fatti». Del muro, secondo quanto ha lui stesso rivendicato, ha costruito solo 480 Km, contro i 1050 che c’erano già e i 3142 di sviluppo totale della frontiera. E ovviamente non lo hanno pagato i messicani, ma sono stati tolti fondi preziosi al Pentagono. E il Nafta è stato abrogato ma sostituito con un nuovo accordo, che in pratica è semplicemente un Nafta con un altro nome.
In compenso, gli immigrati sono stati vessati in molti modi. Non solo gli ispanici, ma loro in modo particolarmente duro: dalla cancellazione di mezzo milione di visti per lavoratori alla contestatissima politica di separare i figli degli immigrati entrati illegalmente da genitori, fino a quel tentativo di cancellazione di quel piano Daca che era stato creato da Obama e che vieta la deportazione di migliaia di bambini immigrati entrati in Usa senza documenti legali. I cosiddetti «dreamers»: almeno 700.000. Vero è che quando la Corte Suprema a giugno lo ha bloccato Trump ha annunciato un drastico cambio di rotta, con la proposta di un percorso per far acquisire agli stessi dreamers la cittadinanza.
Nel 2020 Trump è stato invece sconfitto. Ma tra gli ispanici ha preso il 5% di voti in più, rispetto a quattro anni fa. E il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador, esponente storico della sinistra populista, è tra quei capi di Stato che ancora si rifiutano di fare a Biden le congratulazioni. Esattamente come il russo Putin o il brasiliano Bolsonaro. È pure notorio che quando López Obrador è andato in visita da Trump i due si sono trattati da amiconi, ed hanno tenuto a esibirlo.
Sono due circostanze che è necessario analizzare con cura, per capire che succederà ai rapporti tra Stati Uniti e America Latina dopo Trump. E bisogna iniziare col ricordare che in realtà il voto ispanico è piuttosto frammentato, come provenienze e motivazioni. Molti ispanici sono in realtà ormai integrati nella società Usa, al punto da condividere certi timori sulla «invasione» dei «clandestini».
Altri hanno pagato meno tasse o hanno trovato lavoro grazie alla politica di sgravi fiscali di Trump e se lo sono ricordato nelle urne, anche se poi gran parte di questo effetto era stato già annullato per la recessione da Covid. Come tra quelli rimasti in America Latina, anche tra gli ispanici emigrati negli Usa si è poi molto diffuso un protestantesimo con sfumature fondamentaliste, che tende ad appoggiare Trump.
E poi c’è stata anche una campagna elettorale che ha dipinto Biden come «socialista» e che è stata diretta in particolare a ispanici emigrati da regimi di sinistra. Non solo cubani o venezuelani, ma anche gente che è arrivata durante la «marea rosa» che riempì la regione di governi di quella tendenza. O colombiani che comunque la sinistra al governo non la hanno mai avuta, ma in cui il terrorismo delle Farc ha generato un anticomunismo viscerale.
Una spin-off di questa campagna è stata in fondo anche la confusa accusa di Giuliani sul software “chavista” che avrebbe permesso a Biden di vincere. Tutto nasce dalla storia della Smartmatic: una società venezuelana specializzata in sistemi di voto elettronico, fondata da Antonio Múgica. Classe 1974, ingegnere con la mania del voto elettronico, Múgica era entrato in contatto all’inizio degli anni Duemila con Hugo Chávez, con cui condivideva il pallino di usare le moderne tecnologie per attuare l’antico ideale della democrazia diretta.
Appena trentenne, Múgica ebbe la sua grande occasione al referendum revocatorio del 2004, con un appalto da 128 milioni di dollari per fornire un sistema di voto automatizzato, le macchine per votare e i relativi supporti. Da allora, tutte le elezioni in Venezuela fino al 2017 furono gestite da lui. Dall’opposizione Múgica ebbe reiterate accuse di imbroglione. Dal governo, soldi a palate.
La Smartmatic divenne così un impero multinazionale che ha avuto un ruolo nell’organizzazione delle elezioni in 15 paesi, non solo vicini al chavismo come Ecuador, Brasile o Argentina, ma anche Cile, Messico, Armenia, Uganda, Zambia, Sierra Leone, Filippine, Estonia, Belgio, Regno Unito e perfino gli Stati Uniti.
Negli Usa, però, la Smartmatic ha lavorato in realtà in modo molto marginale: nel 2016 fece le primarie repubblicane nello Utah; adesso ha avuto un contratto con la Contea di Los Angeles. In realtà, la società contestata dai trumpiani è la Dominion, canadese. Che non ha intrecci proprietari con Smartmatic, però nel 2010 aveva acquistato Sequoia: una società californiana che Smartmatic aveva acquistato, ma poi rivenduto nel 2007. Insomma, tutto il sospetto nasce da qua.
Ovviamente è un sospetto che si inquadra in modo un po’ diverso se si ricorda appunto il ruolo di Smartmatic nelle primarie che selezionarono Trump (anche se in quel voto nell’Utah Trump prese solo il 14%). E anche che il 2 agosto del 2017 Múgica in conferenza stampa fu lui a denunciare che Maduro per gonfiare l’affluenza a un’elezione boicottato dall’opposizione e tenuto due giorni prima aveva buttato nelle macchine almeno un milione di voti fasulli. Insomma, adesso Smartmatic e chavismo hanno rotto tra di loro: a differenza di quando Smartmatic fu utilizzata alle primarie che selezionarono Trump.
Effettivamente Trump ha sottoposto il regime di Maduro a forti pressioni, anche se Maduro attraverso la Pdvsa aveva contribuito con ben mezzo milione di dollari alla festa del suo insediamento. E ha pure annullato gran parte degli accordi di normalizzazione con Cuba voluti da Obama.
Come mai però un personaggio come López Obrador ha sviluppato con Trump un feeling così intenso? Qualcuno ha parlato di «sindrome di Stoccolma». Vari analisti liberali latino-americani o di origine latino-americana, dal messicano Jorge Castañeda all’argentino Andrés Oppenheimer o all’oriundo venezuelano Moisés Naím,, ritengono piuttosto che in realtà tra il populismo di López Obrador e il protezionismo isolazionista di Trump vi fosse una sintonia ideologica di fondo, a parte la possibile simpatia caratteriale tra due personaggi entrambi dal carattere piuttosto autoritario e dallo stile personalista. Oltretutto, pure entrambi negazionisti sul Covid.
Entrambi, insomma, erano d’accordo sul fatto che meno relazioni ci fossero tra Stati Uniti e «cortile di casa» latino-americano, e meglio fosse. In nome del protezionismo Trump ha minacciato guerre commerciali non solo all’ex-presidente argentino Maurucio Macri, liberale, ma anche a Bolsonaro: con tutto che questi tiene al soprannome di «Trump brasiliano» ed ha cercato in tutti i modi di sviluppare con lui un rapporto forte, fino al punto di non mandare ancora le congratulazioni a Biden. Secondo questi analisti, alla fine Trump in questo modo ha favorito la penetrazione di Cina e Russia in America Latina, ed ha anche indirettamente rafforzato alcuni regime che pure ha sottoposto a sanzioni: non solo quello cubano e quello di Maduro, ma anche quello di Daniel Ortega in Nicaragua.
A questo proposito c’è anche una testimonianza, su un «consiglio» che López Obrador avrebbe dato al collega argentino Alberto Fernández: peronista eletto dopo Macri. «Con Trump puoi fare tutto quello che ti pare, basta che non dici niente. Non dare mai l’immagine che lo stai affrontando, e ti lascerà stare». Insomma, «perro que ladra no muerde», è l’immagine che è stata usata da vari analisti. «Can che abbaia non morde».
Neanche una volta in quattro anni di mandato Trump ha fatto un giro in America Latina, e il suo unico viaggio nella regione è stato a Buenos Aires per il G20. Da confrontare con i 18 viaggi nella regione fatti da George W. Bush, con i 15 di Obama e anche con gli 8 fatti da Biden in 16 anni. A parte conoscere i temi della regione per essere stato vicepresidente e prima anche due volte presidente della Commissione Esteri del Senato, Biden ha nominato al Dipartimento della Sicurezza Interna Alejandro Mayorkas.
Nato all’Avana nel 1959, arrivò negli Usa che aveva un anno, ed è il primo ispanico e immigrato a occupare una carica così importante nel governo degli Stati Uniti. Pu essendo figlio di anticastristi, ha avuto un ruolo importante nella nornalizzazione delle relazioni con Cuba voluta da Obama. È invece colombiano, nato a Cartagena, Juan González, che dopo essere stato consigliere su temi latinoamericani per Biden è stato uno dei responsabili della sua campagna elettorale.
Proprio González in varie interviste ha spiegato alcune linee guida della politica latinoamericana di Biden. Per bloccare l’immigrazione dal Centroamerica, in particolare, Trump aveva puntato a accordi diretti con governi con quelli di Guatemala o El Salvador, che in cambio di un po’ di aiuti puntavano soprattutto sull’aspetto poliziesco. Nello spirito tipico di Trump, erano comunque sempre intese unilaterali. Biden invece punterebbe a prevenire le cause della emigrazione con un programma multilaterale di aiuti da 4 miliardi, collegati però a un piano di riforme per far crescere la sicietà civile e dunque propiziare occasioni di sviluppo.
Un forte investimento ha anche proposto per l’Amazzonia brasiliana, con la creazione di un fondo internaziobale da 20 miliardi per aiutare a prevenire la deforestazione. Tipo di discorso che però ha già suscitato le ire di Bolsonaro, che vi vede una violazione della sovranità nazionale.
Quanto al Venezuela, Biden è d’accordo sulla definizione di Maduro come dittatore, e non pensa affattyo a togliere le sanzioni. Secondo González, però, «la grande differenza tra Trump e il vicepresidente Biden sl tema del Venezuela è che Trump confonde le sanzioni con la strategia». «Il problema delle sanzioni oggi è che si tratta di uno strumento non inserito in una strategia più ampioa. Invece perché le sanzioni funzionino devono essere parte di un sistema più ampio e globale per avere impatto». Biden offre poi ai venezuelani negli Usa quello status di protezione temporale che malgrado tutta la sua retorica anti-Maduro Trump non aveva mai concesso. Aumenterebbe inoltre l’appoggio umanitario ai venezuelani esuli, e la pressione sul regime perché accetti aiuto umanitario e una soluzione negoziata. Un altro problema di Trump è che ha indotto gran parte della opposizione venezuelana ad adagiarsi sull’attesa di un intervento Usa che poi non è in realtà avvenuto.
Anche per Cuba, il programma sarebbe di eliminare i limiti a rimesse e viaggi che Trump ha imposto ai cubano-americani. Ma González parla anche di «appoggiare il popolo cubano, non il regime, come protagonista del prooprio futuro». «Chiedere diritti politici, diritti umani e più libertà per il popolo cubano sarà qualcosa che formerà parte di ogni intercambio col regime».
Però secondo Castañeda, che è stato anche ministro degli Esteri in Messico, «in temi come il commercio, il lavoro o l’ambiente, Biden potrebbe essere molto più duro di Trump». I «consigli» di López Obrador a Fernández lasciano intendere che per molti presidenti latino-americani anche di sinistra la presenza alla Casa Bianca di qualcuno a cui della regione non importava e alla fine non importava neanche di democrazia, diritti umani, corruzione potrebbe essere perfino preferibile. Ma vedremo.