Medici, politici e gli immancabili esperti lo avevano ripetuto per mesi. Per affrontare la seconda ondata del virus sarebbe stato fondamentale alleggerire il peso sulle strutture sanitarie e favorire le cure domiciliari. Peccato che in queste settimane, mentre la diffusione del Coronavirus ha raggiunto numeri sempre più preoccupanti, l’Italia sta scoprendo che le buone intenzioni sono rimaste solo sulla carta. Ormai diversi ospedali sono vicini al collasso, le ambulanze attendono in coda ai pronto soccorso. Da Nord a Sud si smantellano reparti per inventare nuovi posti letto dedicati ai malati Covid.
L’estate è trascorsa invano, la medicina territoriale non è stata potenziata. Eppure, l’affollamento degli ospedali poteva essere evitato. Con il decreto del 9 marzo scorso, il governo stabiliva che le Regioni dovessero istituire le Usca, unità speciali di continuità assistenziale. L’esecutivo aveva stanziato 61 milioni di euro. Le Usca sarebbero dovute partire a marzo, entro dieci giorni dall’entrata in vigore del decreto. Almeno 1200 unità in tutta Italia: una ogni cinquantamila abitanti. Peccato che oggi l’obiettivo non sia stato raggiunto, anzi. In alcune regioni c’è un team ogni 180 mila persone.
Le Usca sono squadre di medici e infermieri che curano i malati Covid per assisterli a domicilio. Fanno tamponi e prelievi del sangue, somministrano le terapie e monitorano lo stato della malattia. Magari lasciando al paziente un saturimetro. In alcuni casi effettuano anche ecografie per valutare le polmoniti. Spesso vengono reclutati giovani professionisti o specializzandi di medicina generale. Si tratta di interventi coordinati con i medici di famiglia che forniscono supporto a famiglie e anziani, spesso evitando i ricoveri.
Ma che fine hanno fatto i team di assistenza domiciliare? Sulla vicenda cala il mistero, i numeri non si trovano. Non li ha il ministero della Salute, non li raccoglie nemmeno l’Agenas, l’agenzia governativa per i servizi sanitari regionali. Gli enti indipendenti non riescono a censire le Usca. L’ultimo aggiornamento risale a fine luglio quando, secondo l’Altems dell’Università Cattolica, le squadre domiciliari coprivano il 49% della popolazione nazionale. Tre delle regioni che più stanno soffrendo la seconda ondata, in estate avevano un tasso piuttosto basso. Il Piemonte si fermava al 41%, la Lombardia al 35%, mentre la Campania aveva istituito solo il 15% delle unità necessarie.
Oggi i dati restano in mano alle singole Regioni. Molte aziende sanitarie locali si sono mosse con mesi di ritardo, nonostante il decreto. E c’è chi tenta di rimediare all’ultimo minuto, quando gli ospedali sono già congestionati. «In Campania le Usca che potrebbero impedire la pressione sugli ospedali sono partite con delibera del 26 ottobre», ha denunciato il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Secondo il Movimento 5 Stelle, nella regione di De Luca sono state attivate solo 12 squadre sulle 120 previste. Fino a qualche giorno fa in Puglia c’erano 32 unità Usca, una ogni 125 mila abitanti. Adesso si apprende che la Regione intende portarle a 80 con l’inserimento di 300 nuovi medici. La mancanza di operatori sanitari è una costante quasi ovunque.
«Il numero e il funzionamento delle Usca è a macchia di leopardo, ricalca le differenze tra le sanità regionali. Molte unità nemmeno erano state attivate, vista l’estate relativamente tranquilla sul fronte dei contagi». Giacomo Caudo è il presidente della Fimmg, la federazione dei medici di famiglia. Al telefono con Linkiesta, aggiunge un dettaglio inquietante: «Spesso tra il numero ufficiale comunicato dalle Regioni e quello effettivo c’è una discrepanza. In molte zone del Paese le Usca non vengono usate per l’assistenza domiciliare, ma per coprire le carenze di personale dei dipartimenti di prevenzione, quindi per fare tamponi e altre attività diverse da quelle per cui erano state create».
In molti territori del Mezzogiorno mancano unità, operatori sanitari e attrezzature per entrare nelle case delle persone. In Piemonte, Emilia-Romagna è stato raggiunto il numero di Usca prefissato. Anche il Veneto è sulla buona strada. In Lombardia, regione ospedalocentrica per eccellenza, la medicina territoriale si è trovata a rincorrere il virus. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha denunciato che nell’area metropolitana ci sono solo 13 Usca, insufficienti a fronteggiare la mole di richieste.
«Non è stato fatto abbastanza», annota Paola Pedrini, segretaria generale della Fimmg per la Lombardia, che a Linkiesta spiega: «Nelle settimane meno critiche diversi medici Usca erano stati destinati ad altre attività. Ora le squadre stanno aumentando, ma nelle zone più colpite come Milano, Varese e Monza i tempi per le visite si allungano. A Bergamo la maggior parte dei dottori è costretta a fare gli interventi con le auto private, su cui bisogna trasportare materiale infetto». Erano previste 200 squadre in tutta la regione, a fine ottobre se ne contavano una settantina. Oggi, secondo l’assessore al Welfare Giulio Gallera, sono diventate 157.
Dal Nord al resto d’Italia, la musica non cambia. «Non si possono improvvisare le Usca in qualche giorno, chiamando i medici al volo. La gestione del malato Covid è complicata, servono procedure rigorose e corsi di formazione. Alcune regioni consentono ai sanitari di guardare un video su YouTube sull’uso dei dispositivi di protezione per poi prendere servizio. Ma così mandi le truppe allo sbaraglio». Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei medici di Roma, coordina le Uscar del Lazio. «Il nostro consumo di materiale equivale a quello di una rianimazione, è difficile reperire tutto. In momenti di emergenza è capitato che i camici sterili dovessi comprarli io».
Nel Lazio le Usca funzionano grazie a un migliaio di liberi professionisti tra medici di famiglia e infermieri che, su base volontaria, hanno deciso di dare la loro disponibilità. I turni si organizzano attraverso applicazioni online come Doodle di Google e un gruppo su Telegram. Le Asl raccolgono le segnalazioni dei medici di famiglia e comunicano gli interventi da eseguire. Le unità si mettono in moto, in coordinamento con l’istituto Spallanzani. Negli ultimi dieci giorni le Usca laziali hanno effettuato 1200 visite domiciliari.
«A marzo – racconta Bartoletti a Linkiesta – eravamo partiti in quattro con un camper e siamo andati a Nerola, la prima zona rossa istituita in provincia di Roma. Facevamo quello che gli altri colleghi non volevano fare, come la gestione dei grandi focolai nelle residenze sanitarie assistenziali (rsa), i tamponi a domicilio o i sierologici alle forze dell’ordine».
Intanto il Tar del Lazio ha stabilito che i medici di famiglia non sono tenuti a visitare i pazienti positivi, compito che secondo i giudici amministrativi spetta al personale delle Usca. La decisione rischia di complicare ulteriormente il sistema dell’assistenza domiciliare. Paola Pedrini, della Fimmg Lombardia, prova a guardare oltre la sentenza: «Se si potenziasse davvero il ruolo del medico di famiglia, prevedendo supporto col personale infermieristico-amministrativo negli studi e dando dispositivi di protezione che ancora oggi continuano ad arrivare poco, allora sarebbe lo stesso medico di medicina generale a poter andare a casa dei pazienti Covid».
Oggi le visite domiciliari sono diventate la priorità, ma il sistema sanitario non sembra aver imparato la lezione. Lo spiega il presidente Fimmg Giacomo Caudo: «Negli ospedali ci sono più posti letto e più dispositivi per le terapie intensive perché sono state investite risorse ingenti. Ma sul territorio non sono stati spesi soldi ed è stato fatto pochissimo. Lo ha riconosciuto lo stesso premier Conte».