Tutti vanno verso l’Africa, ma l’Europa preferisce passare la mano: meglio lasciare che a fare e parlare per conto suo, laggiù, sia la sola Francia. È questo il quadro geopolitico che si osserva, dando uno sguardo al grande e tormentato continente che si estende al nostro Sud. Enorme, ricchissimo e variegato: conta 54 Paesi, ognuno con un suo presente diverso), storicamente saccheggiato di ricchezze e di uomini dagli europei fin dai tempi dell’Impero Romano.
Ora, duemila anni dopo essere stata il granaio dell’impero romano e quasi un secolo dopo la fine del vergognoso periodo delle colonie, l’Africa continua a comparire, sulle mappe geopolitiche, come un grande Risiko. È lì, lungo le linee dei suoi Paesi più strategici che i grandi del mondo stanno mettendo le loro pedine.
Stati Uniti e Cina, soprattutto, continuano in Africa la loro partita a scacchi. Gli Stati Uniti con la bellezza di 34 basi e circa 7.000 uomini dislocati, la Cina con una sola base, a Gibuti, ma decine di milioni di investimenti in infrastrutture come strade e ferrovie, ma anche con sofisticate operazioni di intelligence (è di questi giorni la notizia che, negli ultimi anni, quasi tutte le coperture degli agenti Cia in Africa sono saltate per effetto del controspionaggio cinese).
A Cina e Stati Uniti, poi, di recente, si sono unite anche India e Russia, i cui interessi e sforzi sono concentrati soprattutto sul mare: l’India, che in realtà non ha messo piede sul suolo africano ma ha di recente aumentato i suoi avamposti nell’Oceano Indiano e a ridosso del golfo di Aden, luogo noto sia per essere infestato dai pirati, sia per essere di assoluto peso strategico perché collega la penisola arabica (e il Canale di Suez) all’oceano Indiano e all’Asia.
Lo stesso sembra intenzionata a fare la Russia che, di recente, ha firmato un accordo con il Sudan per stabilire lì una base navale e avere accesso agli aeroporti. E l’Unione europea che fa in tutto questo? Pochino.
O meglio, fa moltissimo, ma non in quanto Unione europea. Solo in quanto Francia.
Nonostante la Francia non sia il solo Paese dell’Unione ad avere basi e attività in Africa (ci sono anche Italia, Spagna e Germania, oltre al Regno Unito), è di certo quello la cui presenza è più evidente, concreta e operativa.
I militari francesi sono lì, in gran numero, almeno dal 2013 e dalla Crisi in Mali, ossia da quando un gruppo di ribelli Tuareg (ritenuti vicini ad Al Qaeda) provò a rovesciare il governo maliano. In quell’occasione i francesi intervennero, senza mai più lasciare l’area. Anzi, espandendo le proprie missioni a tutti i Paesi detti 5G (Mali, Niger, Ciad, Mauritania e Burkina Faso).
Secondo un report dello Swedish Defence Research Institute, nel 2019 in Africa si contavano circa 8700 militari Francesi concentrati soprattutto nelle aree del Sahel e del Corno d’Africa. Le stesse, per altro, in cui concentrano i loro sforzi Stati Uniti, Russia e Cina, con ragioni geografiche e strategiche che paiono abbastanza evidenti: per il Corno d’Africa, vale quanto detto per il Golfo di Aden: chi lo controlla ha le chiavi dei traffici di greggio da e per mezzo mondo.
Chi controlla il Sahel, la lunga striscia di terra orizzontale che taglia in due il continente, invece ricopre un ruolo strategico per varie ragioni: si tratta di una zona storicamente instabile e martoriata da conflitti di vario tipo che, di recente, è divenuta terreno fertile per terrorismi ed estremisti (Al-Qaeda, su tutti, ma anche le sue mille e diverse ramificazioni) e per il quale passano le rotte dei trafficanti di uomini.
«Il Sahel è soprannominato “il nuovo confine dell’Europa” – ci spiega Giovanni Carbone, Responsabile del Programma Africa di Ispi Milano – e la sua difesa, il suo equilibro, la sua pacificazione, stanno tanto a cuore alla Francia e prima ancora all’Unione: di lì passano sia l’immigrazione sia molte delle vicende del terrorismo jihadista».
Per questo mantenere la sicurezza e la stabilità laggiù è fondamentale per l’Unione europea, il cui braccio armato, in questo caso, è praticamente la sola Francia. «È un Paese che, fin dall’indipendenza delle sue colonie, non ha mai del tutto perso la sua influenza nelle zone che un tempo considerava sue – continua Carbone – e che, in momenti di crisi, come quella del Mali o come quella dell’esplosione del terrorismo o della crisi dei migranti del 2015, ha dimostrato la volontà, oltre che la capacità logistica, per agire in tempi brevissimi».
Per questo oggi Bruxelles in Africa parla praticamente solo in francese, almeno dal punto di vista delle operazioni militari (con Parigi che ne paga un alto prezzo: 47 morti e circa 1200 feriti dal 2014). All’Unione europea, che non possiede un suo esercito e non è nelle condizioni giuridiche di avviare un’azione militare congiunta (il massimo che si potrebbe fare è attivare – come aveva chiesto François Holland dopo la notte del Bataclan, l’articolo 42,7 del trattato dell’Unione, che prevede l’aiuto obbligatorio degli altri Paesi in caso di attacco esterno a uno dei Paesi membri), restano aperte le strade della diplomazia e della cooperazione economica. Tavoli su cui la voce con 27 accenti dell’Unione si sente piuttosto distinta.
Il bilancio comunitario in scadenza in questi giorni, quello tra il 2014 e il 2020, ha previsto stanziamenti per l’area dell’Africa subsahariana per 26 miliardi di euro (un impegno che dovrebbe essere confermato nei prossimi sette anni, anche se la prima proposta di Ursula von der Leyen ne prevedeva uno maggiore). Dunque sembra che sia questa la strada intrapresa dall’Unione per la difesa e la pacificazione del suo nuovo confine meridionale: Bruxelles si occupa della parte politica ed economica e lascia ai francesi l’onore di fare la voce grossa con terroristi e trafficanti. Intanto, un po’ più a Est, nel Corno d’Africa, Stati Uniti, Russia, Cina e India, presidiano il braccio di mare più importante del mondo.