L’accesa rivalità tra Pechino e Washington spesso impedisce di cogliere le strategie che la Cina sta adottando per estendere la sua sfera di influenza globale. Eppure queste strategie sono tante, si muovono tra il lecito e l’illecito, e si irradiano dal Partito comunista cinese. Cercare di capire quali sono i modi attraverso cui la Repubblica popolare si muove fuori dai suoi confini è fondamentale, anche per capire quali strategie di contenimento adottare.
Cosa dice e non dice l’inchiesta di Sky News Australia
Nei giorni scorsi Sky News Australia, insieme ad un consorzio di altre testate, ha pubblicato una serie di leak forniti da un ipotetico gruppo di dissidenti cinesi. Secondo una lista trafugata da Shanghai risalente al 2016, ci sarebbero quasi 2 milioni di affiliati al Pcc che vivono e lavorano all’estero e che si insinuerebbero all’interno di grandi aziende occidentali. Una rete di 79 mila sezioni del partito collocate all’interno di centinaia di consigli di amministrazione. Secondo i media australiani stiamo parlando di realtà come Boeing, Volkswagen, Rolls Royce, ma anche case farmaceutiche come Pfizer e Astra Zeneca.
La notizia del consorzio presenta però una serie di criticità. Foreign Policy, ad esempio, ha smontato pezzo per pezzo l’inchiesta, definendo il racconto come una presentazione del tutto falsata. «La presenza di membri del Partito in società straniere in Cina non è una novità», ha spiegato a Linkiesta Lucrezia Poggetti, analista di Merics, «la Company Law della Repubblica Popolare stabilisce che ogni impresa operante in Cina, comprese le società straniere, debba dare spazio alla creazione di cosiddette “Party Organisations” qualora un minimo di tre membri del Partito che lavorano per l’azienda ne vogliano creare una».
Lo scoop del consorzio quindi non racconterebbe niente di nuovo. Ma ci sono comunque dati interessanti almeno per due motivi, continua Poggetti, «la vera forza dei dati portati alla luce dall’inchiesta sta nell’aver pubblicato informazioni relative alla struttura organizzativa del Partito nelle sue operazioni di “Party building” all’interno delle imprese straniere. Un’altra novità sembra essere quella per cui queste attività ora si estendono anche all’estero, in linea con le ambizioni globali del Partito». Ambizioni che si configurano in altri ambiti.
Come coltivare ambizioni globali
A inizio dicembre il presidente cinese Xi Jinping ha proclamato la fine della povertà estrema in tutto il Paese, un traguardo salutato in modo entusiastico da tutta la stampa cinese. Qualche mese prima dell’annuncio, a ottobre, il Pcc ha voluto organizzare un grande evento virtuale per anticipare la notizia. A questo evento hanno preso parte almeno 400 invitati di oltre un centinaio di Paesi. Un’occasione non solo per mettere in luce i progressi, ma soprattutto per promuovere il modello politico cinese.
Ad organizzare questo seminario sulla povertà è stata una particolare divisione del Partito comunista cinese, l’International Liaison Department. Lo scopo principale di questo dipartimento è quello di ottenere il sostegno alle politiche cinesi da parte di altri partiti politici stranieri e intessere con loro relazioni. In questo senso, ad esempio, non stupisce che Raphael Tuju, esponente di spicco del Jubilee Party che governa il Kenya, abbia promosso le politiche cinesi in tema di lotta alla povertà definendole un esempio da applicare nel proprio Paese.
Negli ultimi anni l’International Department ha migliorato la sua rete globale e per Pechino rappresenta un efficace strumento di influenza. Formalmente non rappresenta le istituzioni della Repubblica popolare e non parla per conto del governo. In realtà, ha notato l’Economist, il dipartimento lavora a stretto contatto con il ministero degli Esteri cinese e addirittura condivide parte del personale.
Nonostante le porte scorrevoli col dicastero guidato da Wang Yi, il dipartimento ha un approccio più felpato rispetto alle prese di posizione muscolari dei Wolf warrior. Normalmente queste attività di persuasione avvengono con meeting e riunioni rivolte a tutti i partiti. Nel 2017 a Pechino si è tenuto un vertice con politici da oltre 120 Paesi, inclusi rappresentati di democrazie consolidate come Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda. Tra i vari partecipanti molti hanno addirittura firmato una specie di memorandum in cui si lodava l’iniziativa, il Pcc e lo stesso Xi Jinping.
Questo tipo di attività si muove in un terreno scivoloso. Non ci sono vincoli che impediscano ai vari partiti sparsi per il mondo di incontrarsi e discutere, ma l’azione decisa dell’ultimo periodo, spiega ancora Poggetti, «può spingere la promozione degli obiettivi del Partito in maniera più decisa». «In aprile», ha aggiunto, «questo dipartimento si era mosso per raccogliere le firme di politici stranieri in una lettera congiunta che cantava le lodi della gestione della pandemia da parte del governo cinese, definendo il suo comportamento «aperto, trasparente e responsabile» nel divulgare informazioni relative al Covid «in maniera tempestiva».
Questa tipologia di operazioni non riguarda orientamenti politici specifici. David Shambaugh, della George Washington University, ha spiegato all’Economist che il Pcc non guarda al colore politico e tratta con partiti di sinistra, destra e tutto quello che c’è in mezzo. Il dipartimento ha confermato di essere in contatto con almeno 600 organizzazioni politiche in oltre 160 Paesi. Sotto la guida di Xi una delle attività cardine di questo dipartimento ha riguardato la formazione, in particolare dei partiti che operano nei Paesi in via di sviluppo.
Il capo del dipartimento, Song Tao, nel corso di un evento a novembre, al quale partecipavano politici di una trentina di Paesi, ha lodato apertamente i benefici del modello di sviluppo con caratteristiche cinesi. Sul fronte pandemico la pressione si è concentrata sul modello di contenimento dell’epidemia varato da Pechino e agli eventi online c’erano rappresentanti di molti Paesi africani come Angola, Congo, Mozambico.
In generale gran parte delle attività si concentrano sulla politica africana, anche in contesti democratici. Nel 2018 Song ha presentato all’inaugurazione di una scuola ideologica finanziata dalla Cina in Tanzania. Mentre in altre realtà democratiche, come Ghana, Kenya e Sudafrica Pechino organizza viaggi periodici in Cina per i funzionari dei governi locali.
Verso la battaglia mediatica
La rete di relazioni e influenze del Pcc va di pari passo anche con un’altra offensiva lanciata dalla politica cinese. Quella sulla cura e gestione delle informazioni. «I settori dell’informazione sono ritenuti fondamentali dal Partito poiché coloro che producono e divulgano conoscenza hanno un ruolo chiave nell’influenzare il dibattito pubblico», continua l’analista del Merics. «Ai media di Stato cinesi, formalmente sotto il controllo ideologico del Partito, si richiede così di instaurare una presenza all’estero e concludere accordi di cooperazione mediatica con agenzie di stampa straniere».
Va proprio in questa direzione la possibile apertura di una sede a Bruxelles della China Media Group. Nel settembre scorso Politico aveva scritto della possibilità che il gruppo creasse un nuovo quartier generale nel capitale dell’Unione europea. Secondo l’osservatorio China Media Project, dell’Università di Hong Kong, la creazione di un ufficio di corrispondenza dal cuore dell’Unione è il segnale che la Cina intende rafforzare la sua presenza mediatica per spingere la narrativa del Pcc in Europa.
La tendenza all’infiltrazione
Questa spinta a creare una leadership globale è il risultato delle intense attività del Partito comunista cinese, spiega ancora Poggetti, «che ha incrementato notevolmente il suo controllo su tutte le sfere della vita economica e politica del Paese». E questo ha fatto sì che «i confini tra attività legittime e operazioni di influenza si siano fatti più opachi». Non solo. L’intero apparato cinese si trova con organi che svolgono ruoli sovrapposti.
«Se il Ministero per la Sicurezza di Stato è l’organo che si occupa formalmente di intelligence, altre organizzazioni si trovano a dover contribuire in maniera più o meno diretta alle sue attività. La State Security Law del 2015 e la National Intelligence Law del 2017 pongono in essere l’obbligo per ogni cittadino e organizzazione cinese di contribuire alla sicurezza di Stato e alle attività di intelligence del Paese».
Il punto, chiarisce ancora l’esperta, è che diverse agenzie del Pcc si occupano di lavorare per migliorare l’influenza del sistema cinese fuori dai confini nazionali. «Il Dipartimento di Lavoro del Fronte Unito del Partito», ad esempio, «si presenta spesso invece come organizzazione para-diplomatica all’estero, ma il suo lavoro consiste nella promozione degli interessi del Partito.
Come Europa e Italia possono difendersi
Fin dall’inizio del suo mandato nel 2012, Xi Jinping ha sempre insistito sul fatto che la Cina non intende interferire sulle questioni interne agli stati. La realtà è più complessa. Gli interessi del Pcc hanno un obiettivo politico chiaro e poco ideologico. Un obiettivo che non prevede tanto la diffusione del comunismo, quando con l’idea che un Paese può diventare ricco e prospero senza essere democratico.
Quanto appeal ha questa impostazione in Europa? Le fascinazioni, soprattutto nell’Est Europa, non mancano, ma la pandemia ha aumentato dubbi e preoccupazioni degli europei, come hanno mostrato le ultime rilevazioni del Pew Research Center. Chiaramente questo non basta a contenere la minaccia, soprattutto per il comparto economico e industriale.
Per questo motivo i Paesi democratici e in particolare Unione europea e Italia dovrebbero modificare l’approccio alla Repubblica popolare. Per Poggetti la ricetta per una migliore autodifesa prevede almeno tre ingredienti. Il primo riguarda una migliore conoscenza della Cina non solo intorno agli aspetti economici ma anche politici, strategici e legali; il secondo prevede invece una promozione «della trasparenza attraverso regole che impongano pratiche di due diligence e disclosure dei propri rapporti con enti legati al partito-stato cinese»; e il terzo di lavorare per «creare codici di condotta nella gestione dei rapporti con enti legati al partito-stato cinese al fine di cogliere le opportunità e ridurre al minimo i rischi politici e strategici nella collaborazione con essi».
Spunti validi soprattutto per l’Italia dove, conclude l’analista, «ingenuità e mancanza di consapevolezza – complice il fatto che nei nostri Paesi la conoscenza del sistema politico cinese e del Pcc sono ancora relegate a piccoli gruppi di esperti – sono una fonte di vulnerabilità.».