The Times They Are a-Changin'La cessione dell’intero catalogo di Bob Dylan spiega dove sta andando l’attuale mercato musicale

Il cantautore americano ha venduto circa 600 titoli alla Universal per un valore che si aggira tra i 300 e i 450 milioni di dollari. La sua natura pragmatica ha avuto la meglio sul romanticismo poetico: una scelta in linea con gli investimenti sulle royaltes di artisti celebri. Una canzone di successo è un solido e affidabile veicolo di flussi di entrate

Il primo paragone che ci viene, con tutta l’ingenuità del caso, è con quelle confraternite di archeologi che nell’Ottocento partivano alla volta di mete esotiche – l’Egitto? Il Perù? Persia, Assiria, e Mesopotamia – a caccia di antichità nella sabbia, pronte a essere trasformate in tesori inestimabili. La differenza è che qui si gioca tutto allo scoperto e uno come Bob Dylan non è certo il buon selvaggio. Nel senso che si può essere sicuri, di fronte alla notizia della cessione del suo intero catalogo di canzoni, circa 600 titoli spalmati su un periodo di quasi 60 anni, dal ’62 a oggi, che dal punto di vista economico le cose gli saranno andate assai bene, con sua piena soddisfazione.

La cifra pagata dall’Universal Music Publishing Group – la divisione editoriale del principale colosso industriale nel settore musicale – è secretata, ma i bene informati parlano di qualcosa tra i 300 e i 450 milioni di dollari, ovvero di che foraggiare una vecchiaia piuttosto tranquilla, per il 79enne musicista che ha sempre detto di non volersi fermare mai. E un secco passaggio d’età per il cantautore che è rimasto titolare dei diritti di tutti i suoi pezzi fino a oggi, avvalendosi per l’amministrazione di questo patrimonio della Sony/ATV Music Publishing, la divisione editoriale dello stesso gruppo a cui fa capo la sua etichetta storica, Columbia Records. 

È l’ultimo colpo, e uno dei più roboanti, del boom di investimenti nell’acquisizione dei diritti d’autore, considerato in questo momento l’asset più solido del settore musicale, con movimenti finanziari di tutto rispetto messi in atto da fondi di investimento e private equity: Primary Wave, per fare un esempio, ha appena acquisito l’ottanta per cento del catalogo di Stevie Nicks per 100 milioni di dollari, mentre la londinese Hipgnosis Songs ha speso oltre un 1.2 miliardi di dollari nell’acquisizione dei repertori di una schiera artisti di successo, tra cui Beyoncé e Blondie.

Il fatto che sia scesa in campo la Universal, un marchio veterano del settore diritti e non un gruppo finanziario, è però una notizia che ridisegna gli scenari, lasciando intravedere vere e proprie prospettive di riconversione. Jody Gerson, capo di questa divisione della Universal, per ora si è però limitato a parlare di «privilegio e responsabilità», nella certezza che «l’arte di Dylan continuerà a ispirare generazioni di fan e di musicisti in tutto il mondo», sottintendendo l’auspicio che così facendo le rendite saranno confacenti all’investimento prodotto.

Ma in linea di massima, ormai, chi mette capitali in acquisizioni di questo genere non sente più il bisogno di offrire all’operazione alibi culturali. Merck Mercuriadis, oggi boss della Hipgnosis dopo essere stato assistente di Richard Branson e manager di Elton John, Guns N’ Roses e Beyoncé, è stato uno dei precursori in questa evoluzione della visione economica applicata alla musica.

Oggi ha acquisito, per conto dei suoi investitori, i diritti di oltre 13mila canzoni, con quotazioni da mercato delle pietre preziose, grazie alle royalties che producono in tutti i settori dello spettacolo: «Una canzone di successo è un solido e affidabile veicolo di flussi di entrate» dice lui stesso, a margine dell’annuncio dell’intero catalogo di Barry Manilow, vecchio re del pop alla saccarina.

«La musica ha valori sganciati dal mercato, perché la gente non ne può fare a meno, comunque vadano le cose. Molto meglio che rischiarsela in settori meno solidi. Il pubblico non smetterà di spendere 10 dollari al mese per un abbonamento a Spotify, mentre altri generi di investimento sono assai più volatili.

Ciò che è accaduto durante la pandemia ne sia la prova: gli abbonamenti ai servizi streaming sono schizzati verso l’alto»: innegabile, se nel 2019 gli utenti a pagamento di Spotify sono aumentati del 27 percento. 

Mercuriadis ha costruito una fortuna comprando diritti di interi canzonieri e punta ad accumulare almeno 60mila titoli di qualità. La sua idea è di mettere le mani su repertori datati di artisti con una solida durata di mercato, più che accanirsi nell’inseguire gli ultimi successi. Quando cerca nuovi investitori, racconta sempre la storia di “Livin on a Prayer” vecchio successo di Bon Jovi pubblicato 34 anni fa: da quando è nato Spotify i diritti annuali sulla canzone si moltiplicano periodicamente e inesorabilmente, senza mai accennare a scemare. Eppure è solo una buona canzone come tante. I fondi di investimento sembrano apprezzare la proposta, dal momento che nei soli ultimi due anni hanno convogliato 860 milioni di dollari verso Hipgnosis, su prodotti come i “Bowie Bonds”, il catalogo che racchiude i successi del Duca Bianco precedenti al ’93 che garantisce guadagni del 7,9% annui.

Così questo mercato diventa sempre più rovente: 300 milioni, ad esempio, sono stati spesi per l’acquisto del repertorio di Taylor Swift da parte di Scooter Braun, il manager di Justin Bieber e Ariana Grande. Del resto, se le vendite discografiche sono sprofondate, lo streaming rafforza ogni anno di più l’acquisizione dei diritti editoriali, con un incremento del 23 per cento nell’ultimo anno e 450 milioni di abbonamenti a pagamento oggi attivi nel mondo.

Tutta questione di soldi insomma, discorso impoetico che però diventa la chiave nel tentativo di risollevare le sorti economiche del mercato musicale, bastonato dagli effetti delle recenti rivoluzioni tecnologiche. «Non so suonare una nota, figuriamoci scrivere una canzone» dichiara Mercuriadis, «ma so fare gli affari. E questo è un business serio e sano».

Probabile che Bob Dylan la veda come lui, non avendo d’altronde mai fatto mistero del suo rapporto pragmatico col proprio straordinario corpus creativo. Insomma, sa come suggestionarci con parole e note, ma non ha mai trascurato il valore di ciò che ha prodotto. Non c’è da credere che abbia bisogno di soldi, o che voglia predisporre una vita comoda per i figli, quanto che abbia deciso quantificare mezzo secolo di lavoro.

Chi ha osservato come agisce al di fuori dalle luci della ribalta, afferma che l’affare ci sta, che è calzante col personaggio, scevro com’è da romanticismi e da sempre interessato a ciò che trasforma in valore quel che sa fare. Si è tolto un peso dalla schiena, passando all’incasso.

A proposito di pesi: nel tesoro di cui Dylan ha venduto il controllo (totale: non incasserà più nemmeno la percentuale riservata all’autore-esecutore) c’è un’unica canzone non scritta da lui. E che canzone! “The Weight” della Band, capolavoro di cui il legittimo autore, Robbie Robertson, avrà eterna nostalgia. Ma così è la vita: del resto tutto ciò che Bob scriverà a partire da adesso, gli appartiene interamente e la sensazione è che la vena non sia esaurita. Quanto varrà quel che ha ancora nella testa, nel cuore e nella sua rochissima ugola?

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