L’autogol dei contiani è sorprendente. Invece di difendere il governo nel merito delle cose fatte o tentare di valorizzare ciò che sta facendo, l’unica arma polemica che utilizzano contro chi gli rema contro è la minaccia del ritorno alle urne. Ma questa è l’ammissione implicita che evidentemente c’è poco da difendere e una palese certificazione dell’assenza di impegni o, detta volgarmente, di promesse al Paese: il che legittima l’opinione di chi ritiene che questo governo abbia esaurito la sua spinta propulsiva. Che non abbia più niente da dire.
Mentre si accumula un ritardo sul NextGenerationEu – non un ritardo burocratico secondo le lancette di Bruxelles ma un ritardo politico, di idee, di coinvolgimento del Paese – e si consumano i nervi degli italiani con le cervellotiche norme sulle festitvità, i ministri e i politici più vicini a Conte agitano dunque lo spauracchio delle urne, trincerandosi dietro un’emergenza che hanno difficoltà ad affrontare. È la linea del Pd, d’altronde, una posizione attendista che ormai non riesce più a mascherare l’insoddisfazione per l’azione, o l’inazione, del premier: una trincea debole, troppo debole.
E d’altra parte il ricatto delle urne è un bluff. I parlamentari di qualunque colore – ecco la vera unità nazionale! – non fanno altro che informarsi se le elezioni siano davvero dietro l’angolo, avendo ormai chiaro che l’offensiva renziana è una cosa seria e angosciati all’idea di perdere lo scranno. Vale anche per i parlamentari di Italia viva, intendiamoci: infatti l’altro giorno Ettore Rosato ha dovuto rassicurare tutti loro che se cade Conte ci sarà un altro governo; e lo stesso dicasi per quelli del Pd, gran parte dei quali in Parlamento non rientrerebbe mai; mentre a destra, malgrado gli strepiti di Giorgia Meloni e – meno – di Matteo Salvini, non è al voto che si guarda ma semmai a come rientrare in gioco.
È chiaro infatti che una crisi di governo obbligherebbe tutti a fare un po’ di politica. E, come ha osservato Marco Follini sul Dubbio, chiamerebbe inevitabilmente in causa «la capacità di arbitraggio del Capo dello Stato che dovrà dilatarsi oltre i confini tracciati fin qui», confini che sono stati quelli della secca difesa del quadro politico.
Ma è da notare che da qualche giorno i quirinalisti hanno smesso di riferire il presunto refrain del capo dello Stato – o Conte o voto – come se il Colle si disponesse a entrare in una fase nuova. Ormai ci siamo, si pensa nei Palazzi.
Certo, sarà da vedere quale sarà la mossa di Renzi nel caso dovesse davvero mollare il governo Conte come autorizza a credere l’intervista di ieri di Rosato a SkyTg24 («Ad oggi non c’è più la fiducia tra la maggioranza e il premier. Bisogna ricostruirla»). Ma è chiaro che per ricostruirla l’avvocato dovrebbe accettare una serie di condizioni pesanti, a cominciare dalla rinuncia alla sua volontà accentratrice dimostrata sui servizi segreti e all’invenzione della cabina di regia sul NextGenerationEu. Ora, sarebbe disposto a fare sostanziali passi indietro un uomo che è andato via via innamorandosi del suo ruolo e della sua stessa immagine ed è ancora convinto di saper sedurre gli italiani? Sarebbe disposto, l’avvocato del popolo, a subire due vicepresidenti del Consiglio con funzioni da guardiani? E a modificare radicalmente il sistema comunicativo di Palazzo Chigi? Insomma, sarebbe disposto Conte ad accettare una forte crescita del ruolo dei partiti della maggioranza?
Perché il punto è esattamente questo: il problema del governo Conte è Giuseppe Conte. Per una serie di ragioni – alcune le abbiamo ora accennate – è il profilo di questo presidente del Consiglio a essere messo in discussione, apertamente dal senatore fiorentino, a mezza bocca dal Pd e da mezzo Movimento Cinque stelle. E senza che via sia alcuno che ne difenda l’immagine e l’operato. Nell’anno che sta arrivando, è questa la novità.