«Per le Feste tutte le regioni saranno gialle!». Nel giorno dei 993 morti – cifra che nemmeno a marzo fu raggiunta – Giuseppe Conte si è presentato alla ennesima conferenza stampa all’ora di cena con un tono francamente stridente con la gigantesca aura di lutto che sovrasta l’Italia, ribadendo la linea dura e le restrizioni per i giorni di Natale. Ma d’altra parte con quasi mille nuove bare appena sigillate sarebbe stato fuori dal mondo una linea soft.
Il surrealismo è proseguito anche peggio, fra le chiacchiere sulla vicenda della scorta e della «mia compagna Olivia», chiacchiere sul Mes, chiacchiere sugli inconcludenti tavoli programmatici, «troveremo la sintesi, non vogliamo galleggiare», eccetera eccetera. Sulle domande politiche zero novità, macché rimpasto, il tutto con una baldanzosità che stride con il fatto che ormai è attaccato da tutti, o quasi.
Lo scollamento fra Conte e i partiti è massimo e, mancando una leadership politica, l’aria, come avevamo scritto pochi giorni fa, è da liberi tutti. Non c’accordo su nulla, ha fatto notare Italia viva, è qualcosa di molto più serio del dissenso dei sovranisti Cinquestelle sul Mes.
E il paradosso è che Conte è al tempo stesso debole ma con la presunzione del comandante in capo (ieri si è autodefinito «il capitano di una squadra»), fa il sornione andreottiano che tira a campare e insieme innervosisce tutti accentrando il potere nelle sue mani.
In questo drammatico dicembre emerge tutta la debolezza politica di un avvocato giunto al potere per caso, e questo i politici di professione non riescono più a occultarlo o a sospirarlo a microfono spenti ma pongono più o meno crudamente il problema di un governante che non governa.
Il cambio di passo chiesto da Nicola Zingaretti ormai tre mesi fa non si è visto e solo il serrare le fila in nome dell’emergenza trattiene il Nazareno a osare di più, problema che non ha certo una destra che sente l’odore del sangue come mai prima d’ora, né le Regioni che ormai sono evidenti spinte nel fianco.
Tutto sembra nelle mani del Partito democratico, che abbozza ma morde il freno. L’attacco a questa sorta di autoritarismo soft di Conte è stato sferrato da uno che conosce bene i meccanismi istituzionali, il senatore dem Luigi Zanda, vicino a Dario Franceschini.
Non è una roba da poco, anche se Repubblica l’ha confinata in taglio basso nella pagina dei commenti: secondo l’ex capogruppo dei senatori dem, «il profilo del governo è cambiato. Il presidente del Consiglio dei ministri, costituzionalmente primus inter pares, è andato pian piano trasformandosi nella ben diversa figura di capo del governo che in molti casi non si limita a dirigere, promuovere, coordinare, ma di fatto dispone direttamente su questioni di competenza dei ministri. Berlusconi non è stato presidente del Consiglio, ma capo del governo. Lo è stato anche Renzi». Lo avesse detto Zingaretti, o Andrea Orlando, o Graziano Delrio sarebbe caduto il governo.
Nella fredda notte dicembrina il gelo avvolge un premier contento di se stesso, nel giorno delle mille bare.