Qualche anno fa, una newyorkese che viveva a Parigi scrisse un libro per spiegare i metodi educativi francesi, che producevano a suo dire frugoletti adorabili che non frignano nei ristoranti e non ti svegliano la notte.
In Italia il tomo venne pubblicato da Sonzogno col titolo Il metodo maman, e vendette ben quattromilaecinquecento copie: quattromilaecinquecento coraggiose che non temevano di venire espulse dal consesso delle madri presentabili leggendo un libro che ti spiegava come far sì che tuo figlio non rompesse troppo i coglioni.
Ci ho ripensato ieri, mentre leggevo l’indignazione social per Cristiano Ronaldo, il quale vorrebbe che il figlio decenne si allenasse e non bevesse bibite zuccherate e facesse bagni freddi; ma non sono tempi per crescere campioni, questi: sono tempi in cui i bambini hanno diritto di esprimersi (si esprimono bevendo gazzosa).
Ci ho ripensato mentre mi dicevo che la cosa peggiore che possa capitarti nella vita è essere figlio d’arte.
Ho un’amica regista che sbuffa ogni volta che sospiro su Gassman e Tognazzi (intesi come Vittorio e Ugo): in tutto c’è un’età dell’oro, il cinema ha avuto quegli anni lì, finiamola di sdilinquirci di nostalgia e andiamo avanti – dice lei.
Ma, forse, il vantaggio che avevano quelli lì era che essere figlio di qualcuno era un’eccezione (mi starò di certo dimenticando qualche esempio, ma di figli d’arte dello spettacolo italiano nel Novecento mi vengono in mente Eduardo De Filippo e Nora Ricci).
Diventare Gassman è più inaspettato, e quindi più facile, se non sei figlio di Gassman. Ormai, poi, siamo al terzo giro dinastico. Tempo fa ho visto un titolo che annunciava una serie col «papà di Gassman», ho scartato rapidamente l’idea d’una resurrezione, e dopo un po’ ho capito: adesso il «papà» è Alessandro, giacché c’è una generazione per cui Gassman è Leo (cantante, figlio di Alessandro, nipote di Vittorio).
Quando il tuo nome non si sa più se evochi te o tuo padre o tuo figlio, puoi essere una star? I figli di Madonna potranno pure vincere un Nobel, ma non saranno mai altro che i figli di Madonna (e comunque è più facile avere la brama di successo che t’induce a sbatterti quel tantissimo che serve a vincere un Nobel se il mondo non ha i poster di tua madre in camera).
Se tuo padre non è famoso, puoi diventare Agassi. Perché quel che serve a fare di te una storia di successo, un campione, un fenomeno, quelle vessazioni, quei sacrifici, quella brutalità, quella roba lì al limite la racconterai tu da grande in un bestseller, ma mentre sei un piccolo aspirante campione nessuno intervisterà il tuo sconosciuto padre e lui non racconterà che ti urla addosso se osi mandare a rete una delle cento palle al minuto sparate dalla macchina contro cui ti fa allenare, nessuno se ne indignerà, nessuno sconosciuto riterrà di dovergli spiegare come si fa il padre.
Ma chi mai ha detto, obietteranno le mamme montessoriane, che d’un bambino si faccia un genio vessandolo. Anzi, è inoculandogli autostima che otterrai i migliori risultati. Dev’essere per questo che viviamo in un mondo in cui è praticamente scomparsa l’imbecillità: perché ci ripetono la litania dell’autostima da ogni rivista e da ogni account Instagram e da ogni pubblicità (credo d’aver già detto i danni dello slogan «Perché io valgo» sulla specie umana).
Può anche essere che «imbecilli con autostima» come via al successo non sia del tutto fallimentare. All’epoca del libro sui metodi didattici francesi, la stroncatura più interessante venne da un’americana che notava come, nella classifica dei più ricchi del mondo, non ci fossero francesi che le ricchezze non le avessero ereditate. Il metodo del dire ai ragazzini di non rompere i coglioni e stare al loro posto, argomentava, produce adulti troppo ubbidienti per diventare miliardari. Credere, obbedire, non arricchirsi.
Di sicuro, però, a bere bibite zuccherate diventi un piccolo diabetico, e a non allenarti non diventi un grande campione, anche se hai tutto il talento del mondo. Ma capisco il trauma delle madri mie coetanee: siamo cresciute vedendo Mimì e Mila coi polsi sanguinolenti nei cartoni animati giapponesi, preferiamo vivere tranquille che diventare campionesse, e non vogliamo che i nostri figli scrivano memoir su che genitori di merda fossimo.
Nella prima puntata di Mila e Shiro, Mila e il suo fratellino venivano legati come neanche in Aspromonte per aver osato disturbare un allenamento. Le bambine che lo videro nell’84 sono diventate adulte facendo tutto il giro e approdando all’estremo opposto. Non solo non legano né altrimenti puniscono i figli, ma s’indignano all’idea della proibizione di qualunque cosa, bibite zuccherate comprese. Questa è grassofobia, accusano. Meglio crescerlo diabetico che traumatizzarlo con la rivelazione che l’obesità non è sana.
E se il figlio di Ronaldo non volesse fare il calciatore?, obiettano. Sarebbe un’ottima cosa, con la brutta fatica che è essere figlio d’arte, ma è un’eventualità prevista nelle stesse dichiarazioni del padre, che dice che può fare anche il chirurgo, purché sia il migliore.
Eh ma non gli si può mettere addosso tutta questa pressione. I migliori nel loro settore piacciono a tutti, ma vogliamo raccontarci che lo siano diventati per serendipità, senza sforzo, accompagnando la cugina a un concorso di miss e da lì in un attimo diventando premio Oscar, venendo bocciati a scuola e poi diventando Nobel per la Fisica, senza sacrificarsi, applicarsi, inelegantemente sbattersi. Il metodo contemporaneo: quello che non fa sudare.
Non capisco come mai nessuno abbia ancora proposto un cartone animato più adatto ai nuovi tempi: una campionessa di pallavolo che diventa tale uscendo tutte le sere e non presentandosi agli allenamenti perché la mattina dorme. Ma vince lo stesso, perché è piena d’autostima.