La crisi economica ha fatto crollare fatturati, ha registrato segni meno nei bilanci di tante aziende, ha portato alla chiusura moltissime imprese praticamente in ogni settore grandi e piccole. È il leitmotiv del 2020. Resistere alle difficoltà di un anno pandemico non è facile per le aziende, ma alcune lo fanno meglio di altre.
Il New York Times in un lungo articolo suggerisce di guardare le “shinise” (letteralmente, vecchio negozio), le imprese giapponesi ultracentenarie. Sono aziende caratterizzate da una bassissima propensione al rischio, preferendo l’accumulo di grandi riserve di liquidità ai nuovi investimenti: non è un caso che nell’arcipelago del Pacifico del Nord si sia registrato un tasso di fallimenti molto più basso che altrove durante la pandemia.
Le imprese storiche più grandi, anche quando realizzano profitti significativi, non aumentano le spese, non cercano di espandersi per moltiplicare i guadagni, ma usano la liquidità per garantire l’emissione degli stipendi ai dipendenti e adempiere a tutti gli obblighi finanziari anche in fasi di recessione o di crisi. Ma anche le più piccole non superano mai una certa soglia di indebitamento e anzi, se possono, conservano sempre qualcosa per poter resistere alcuni mesi. È per questo che sono aziende particolarmente sostenibili e riescono a conservare il loro business così a lungo.
«Nei libri di testo di economia le imprese sono soggetti che cercano sempre di massimizzare i profitti aumentando le loro dimensioni, la quota di mercato e il tasso di crescita. Ma i principi operativi di queste aziende sono completamente diversi: per loro la priorità numero uno è allungare il cammino che hanno alle spalle, ogni generazione è come un corridore in una staffetta. L’importante è passare il testimone», spiega al quotidiano americano il professore emerito di economia presso la Ryukoku University di Kyoto Kenji Matsuoka.
Il governo giapponese ha un ruolo importante per la sostenibilità del modello economico delle shinise: «Quando hanno bisogno di sostegno, i finanziamenti arrivano facilmente, e i tassi di interesse in Giappone sono stati bassi per decenni. Poi per la pandemia è stato varato un pacchetto di stimoli alle industrie, praticamente a tasso zero per quasi tutte le piccole imprese. Le shinise sono fonte di orgoglio e fascino. I governi regionali promuovono i loro prodotti. I libri di gestione aziendale spiegano i segreti del loro successo. E a loro è dedicato molto spazio sulle guide turistiche», scrive il quotidiano americano.
Trattandosi di aziende con una lunga storia alle spalle spesso sono proprietarie delle strutture in cui operano e le più piccole sono a conduzione familiare, in modo da contenere i costi del personale. Un atteggiamento conservativo a livello d’impresa, in Giappone, ha iniziato a instaurarsi intorno al XVII secolo, quando il Paese del Sol Levante si isolò quasi del tutto dal mondo esterno, fornendo un ambiente commerciale stabile, ma anche potenzialmente stagnante. Poi nell’ultimo secolo sopravvivere è diventato sempre più un gioco d’equilibrio tra la conservazione delle tradizioni e l’adattamento alle condizioni di un mercato in costante evoluzione.
Il New York Times cita alcuni esempi di aziende molto famose, come Nintendo, che ha iniziato a creare carte da gioco 131 anni fa, o il marchio di salsa di soia Kikkoman, che esiste dal 1917. Ma la storia più interessante collegata a questo 2020 è quella di Ichiwa, un piccolo negozio in legno di cedro che si trova a Kyoto, un’attività che la famiglia Hasegawa gestisce da oltre mille anni. Ichiwa vende mochi, un dolce tradizionale giapponese a base di riso, e nient’altro: è l’unica voce sul menu, così come l’unica bevanda è un tipo di tè verde.
Per sopravvivere per oltre un millennio, ha detto al New York Times la signora Hasegawa, «un’azienda non può solo inseguire i profitti. Deve avere uno scopo più alto. Nel caso di Ichiwa, era una vocazione religiosa: serviva i pellegrini che arrivavano al santuario qui vicino».
Il quotidiano poi fa un piccolo approfondimento sulla data di fondazione di queste aziende vecchissime – lo scrive tra parentesi – facendo capire che è sempre difficile risalire all’anno preciso, ma in molti casi le date sono accettate universalmente, sia dal governo, sia dagli esperti e, per quanto riguarda Ichiwa, anche dal negozio di mochi concorrente che sta dall’altro lato della strada.
Adesso, dopo oltre mille anni, una nuova pandemia ha dilaniato l’economia della vecchia capitale giapponese, arrestando del tutto l’afflusso di turisti. Ma la famiglia Hasegawa non ha nulla da temere.
Come tante altre shinise, Ichiwa è gestito con una visione a lungo termine. «Mettendo tradizione e stabilità al di sopra del profitto e della crescita, Ichiwa ha resistito a guerre, pestilenze, disastri naturali e all’ascesa e alla caduta degli imperi. Gli Hasegawa si prendono cura dei propri dipendenti, sostengono la comunità e si sforzano di realizzare un prodotto che suscita orgoglio», scrive il New York Times.
I loro valori sono rimasti sempre gli stessi dall’inizio. Così come i loro snack di farina di riso sono quelle di sempre: il riso viene fatto bollire in acqua, viene pestato e lavorato fino a diventare una pasta, poi modellato in piccole palline che vengono messe su spiedini di legno e tostate su un piccolo hibachi in ghisa; la pasta di riso viene poi spennellata con miso dolce e servita calda.
La famiglia Hasegawa non ha però potuto rinunciare del tutto alla modernità, all’adattamento a una realtà in costante evoluzione, soprattutto negli ultimi anni. Hanno avuto un atteggiamento conservatore, in molti casi: non hanno voluto allargare il locale, e hanno rifiutato la richiesta da parte di Uber Eats di avviare un percorso di consegna online del loro mochi.
Poi la modernità ha portato anche nuove esigenze: il dipartimento sanitario locale ha vietato l’uso dell’acqua di pozzo per la realizzazione degli snack, e per la cucina è stato acquistato un macchinario che lavora il riso facendo risparmiare diverse ore di lavoro al mattino.
Ma lo stato di salute dei bilanci di Ichiwa – che non permette alla famiglia di arricchirsi, ma rimane un’azienda sana – ne fanno un esempio di resistenza alla crisi e alle difficoltà portate dal 2020. E la storia del piccolo negozio di Kyoto non è certamente la sola di questo tipo.
«Il Giappone è una superpotenza in fatto di business ultracentenari», scrive il New York Times, riportando alcuni numeri del Research Institute of Centennial Management: il Paese ospita più di 33mila aziende con almeno 100 anni di storia, oltre il 40 per cento del totale mondiale; oltre 3.100 sono in funzione da almeno due secoli; circa 140 esistono da più di 500 anni, mentre almeno 19 dovrebbero essere attive ininterrottamente dal primo millennio. E ancora quest’estate tra le aziende che hanno almeno 100 anni, più di un quarto ha affermato di avere fondi sufficienti per andare avanti almeno per due anni.
Non tutte le aziende hanno resistito producendo solo una singola cosa come Ichiwa. Alcune hanno dovuto aggiornare il loro core business. Nbk, un’azienda che ha iniziato a produrre bollitori in ferro nel 1560, ora produce parti meccaniche di prodotti di alta tecnologia. Hosoo, un produttore di kimono di Kyoto che esiste da 332 anni, ha allargato il perimetro della sua attività tessile nell’arredamento per la casa e nell’elettronica.
Per altri però non è così facile. «Tanaka Iga Butsugu di Kyoto vende la tradizione stessa: fa prodotti tipici della religione buddista dall’885», scrive il New York Times. Il presidente Masaichi Tanaka rappresenta la settantesima generazione della conduzione familiare, ma i piccoli altari domestici (butsudan) che vende non hanno più il mercato di una volta: il business è in calo da un po’ di tempo perché i santuari – i principali acquirenti dell’azienda – non sono più così frequentati, e nelle case moderne non sempre si trova spazio per i suoi prodotti. Inoltre è sempre più difficile trovare lavoratori qualificati per questo genere di beni.
«Quando si parla di tradizione religiosa, c’è poco spazio per l’innovazione. Molti dei progetti dei suoi prodotti sono vecchi quasi quanto l’azienda», ha spiegato Masaichi Tanaka.
Ma questo è un caso particolare: la maggior parte delle aziende ultracentenarie si è dimostrata particolarmente resiliente alla crisi del 2020 così come a quelle del passato. E forse il vero motivo risiede nelle parole di Naomi Hasegawa, che oggi ha 60 anni e gestisce in prima persona il piccolo negozio Ichiwa che vende mochi a Kyoto. «Guidare un’azienda con una tale storia alle spalle mette un po’ di pressione, ma tutti in famiglia sono avvisati: fin quando uno di noi è ancora vivo bisogna andare avanti. Tutti noi odiamo l’idea di lasciar perdere».