La pandemia non crea caratteri: li aggrava.
Quelli di quest’epoca, per esempio, erano già così prima di questo disastroso anno: genitori smaniosi di giustificare i capricci dei figli, governanti smaniosi di assecondare i capricci dell’elettorato. Gente senza autorevolezza perché terrorizzata dall’esercitare l’autorità, quella cosa che puoi fare solo se l’idea di perdere consenso non ti rende tremebondo.
C’è una scena di una vecchia serie americana il cui il presidente parla con uno psicanalista. Il presidente dice che lui ha fatto delle scelte difficili, e quello, per 285 dollari l’ora, lo stronca: «Mi sembra che Lincoln abbia fatto quel che reputava giusto anche se significava perdere il consenso di metà del paese. E mi sembra che lei non faccia quel che reputa giusto se farlo significa perdere i voti del Michigan».
È un dialogo d’una serie il cui protagonista è il presidente dei sogni (un premio Nobel, tra le altre cose), ed è un dialogo andato in onda quasi diciannove anni fa. Pensatelo oggi, coi sondaggi ogni minuto, coi social, coi politici che si contano i cuoricini e fanno sembrare la Ferragni una statista.
Ieri, quando ho letto che il governo stava pensando di ripensare la norma per cui a Natale non si può andare in giro, perché la gente è insoddisfatta, la gente vuole andare dagli zii nel paese a fianco, la gente dice che state vessando i paesini perché un conto è potersi muovere per l’ampia area del comune di Roma e un conto per quella ristretta di Frosolone, provincia di Isernia; ieri, quando ho letto quest’ennesimo piscialettismo d’un governo che crede nella fondatezza delle proprie decisioni e sa farle rispettare più o meno come le mie coetanee sanno farsi rispettare dai figli (cioè: un po’ meno di Paperino dai nipoti), ho pensato al prossimo ripensamento.
Perché è ovvio che ce ne sarà un altro, no? Lo sa qualunque genitore che abbia detto al figlio «dovresti stare in castigo ma come faccio a non accontentarti con quel broncetto irresistibile»: ti fai commuovere, e la volta successiva quello farà peggio.
Quindi, il cedimento di adesso è, se ho capito bene (coi cedimenti nella disciplina non si può mai sapere cosa cambierà da un minuto all’altro), che se tua nonna sta in un piccolo comune e ti si strazia il cuore a non passarci il Natale, puoi andarla a trovare (o può venire lei da te? È biunivoca la possibilità di spostamento, o solo un travaso da grande a piccolo? E i medi?), ed essere in questo modo sicuro di non passarci la Pasqua, giacché l’avrai infettata e per allora ella sarà deceduta lasciandoti erede.
Tutto ciò se siete nella stessa provincia. Non serve essere dei giganti della sceneggiatura per prevedere che il successivo sviluppo sarà: è un’ingiustizia, io sto in provincia di Modena e i miei zii in provincia di Reggio, e tra noi c’è una distanza inferiore a quella che c’è tra i Parioli e l’Eur, e perché loro possono spostarsi e noi no.
Mancano due settimane a Natale, c’è margine per fare ancora un sacco di capricci, e per farci spiegare dalla mia generazione (scusate se mi ripeto: la peggiore di tutti i tempi) che non sono capricci, che la Montessori diceva che un bambino esprime i propri bisogni e va ascoltato, mica fa i capricci.
L’altro giorno una mamma in un gruppo Facebook raccontava che la figlia aveva piantato un capriccio perché voleva altra pasta (dopo averne mangiati due piatti) e la pasta era finita, e che non c’era verso di calmarla. Apriti cielo. L’opinione di maggioranza, espressa dopo averla redarguita per aver osato sminuire il bisogno chiamandolo capriccio, era che la madre snaturata avrebbe dovuto per ogni evenienza cucinare pasta in più, casomai la piccina, futura obesa, avesse dei bisogni e li esprimesse strillando.
Ogni volta che leggo queste meraviglie penso alle tate degli Agnelli raccontate in “Vestivamo alla marinara”, e a come si staranno rivoltando nelle tombe. Ogni volta mi chiedo come possiamo essere così fessi da andare pazzi per “Downton Abbey”, dove i bambini vengono portati due minuti a fine giornata a salutare i genitori, e poi ritenere nostro dovere farci imporre dai figli tutto, pure gli etti di pasta da buttare.
Poi mi ricordo che mica sono i bambini, il problema (lo saranno: dategli tempo). Il problema siamo noi: che ci sentiamo vessati se ci dicono di stare a casa con una cazzo di pandemia; che cianciamo di libertà civili se ci levano il diritto costituzionale al cenone della vigilia; che ci sentiamo sulle montagne col mitra se andiamo sotto il tweet di Di Maio a dirgli che non si deve permettere di dire che lui ci permette di andare in giro. Noi, educatori montessoriani di noi stessi.
(Sorvolerei su Di Maio che ben pensa di scrivere «Permettiamo» facendosi prendere a coppini da chiunque passi di lì, altrimenti devo come al solito dire che agli adulti con ruoli pubblici vanno levati i social, per il loro bene e per il nostro, e mi dite che sono fissata e che un povero statista deve pur potersi svagare contandosi i cuoricini e autoscattandosi).
Il guaio siamo noi che, senza che ci venga da ridere, spieghiamo che se nostro figlio organizza risse è colpa del virus e del suo gravissimo indotto di privazioni: «Prima del Covid si allenava con i suoi compagni di squadra di pallanuoto quattro volte a settimana. Ora i ragazzi sono allo sbando», diceva ieri uno dei genitori dei rissaioli del Pincio. Già mi vedo le interviste dopo Natale: mio figlio ha sparato a un vicino, era traumatizzato dalla mancata condivisione del cotechino coi secondi cugini.
In “Let them all talk”, il nuovo film di Steven Soderbergh con un trio di magnifiche vegliarde (Meryl Streep, Dianne Wiest, Candice Bergen), la romanziera Streep si chiede sconsolata perché mai la sua agente settantenne debba andare in pensione, «i figli hanno bisogno di lei, ma i figli hanno quarant’anni». Intanto il figlio di Wiest, piazzatolesi in casa, le dice che ha come l’impressione di pesarle. Quarantenne anche lui, inutile precisare: siamo i fondatori del piscialettismo adulto, eravamo già così ben prima della pandemia, e ne andiamo molto fieri.