«Nostra madre è sempre innamorata di qualcosa o di qualcuno: con papà faceva l’artista e vivevamo a Roma, con Pavel fa la suora e viviamo qui». Nessuno sa niente di Margherita Agnelli; quando nessuno sa niente di te, nascono magnifiche leggende. L’eredità, i figli, e la stranezza: «Quella è un po’ strana» è da sempre una chiave che, non spiegando niente, illude gli osservatori superficiali d’aver capito tutto.
Adesso che la nostra generazione ha un “Vestivamo alla marinara”, possiamo illuderci di sapere moltissimo di Margherita Agnelli, nonostante la figura della madre in questa storia quasi non compaia: c’è moltissimo, uno sceneggiatore non ha bisogno d’altro per costruire un personaggio, in quella frase che sta nella prima scena di “Magari”. Il nostro “Vestivamo alla marinara” da ieri è in streaming su RaiPlay (come sarebbe stato questo periodo di convalescenza senza le piattaforme streaming?).
È il film d’esordio di Ginevra Elkann, terzogenita di Alain e di Margherita Agnelli, ed erede del mistero materno: di lei si sa ancor meno che della madre (del fratello John anche i più distratti sanno che è il proprietario di Repubblica, del fratello Lapo anche quelli appena tornati da Marte sanno fin troppo).
Diversamente da “Vestivamo alla marinara” – il libro di Susanna Agnelli che era dichiaratamente un memoir di famiglia, e perciò spesso perde l’occasione d’essere considerato per ciò che è, ovvero uno dei più gran romanzi italiani di tutti i tempi – “Magari” si dichiara opera di finzione, non per questo perdendosi l’occasione d’essere letto come autobiografia familiare (la più grande bugia mai detta da una canzonetta sta in “Luci a san Siro”, è quel verso che, riferendosi alle canzoni, fa «tanto che importa a chi le ascolta se lei c’è stata o non c’è stata e lei chi è»: ci importa moltissimo, tutta la letteratura è pettegolezzo, tutto il cinema, tutte le canzonette).
Per dire: mesi fa ci fu una proiezione di “Magari” per i giornalisti. Era quando la vita era più facile, e i film potevano pensare d’uscire al cinema, e qualche settimana prima dell’uscita li si faceva vedere alla stampa.
Insomma, all’uscita dalla proiezione una signora che ostentava familiarità con la famiglia Elkann (quando sei ricco e famoso hai sempre un sacco di amici autocertificati) si chiese a voce alta come il padre di Ginevra, Alain, avesse preso il fatto che il padre nel film (interpretato da Riccardo Scamarcio) non sembri esattamente un fulmine di guerra.
Di sicuro non lo sapeva, di sicuro le ha messo il muso, ipotizzava l’amica di famiglia. In quella prima scena, che si svolge in una chiesa ortodossa durante una messa, tra le comparse che interpretano i fedeli c’è, ben visibile, Alain Elkann (no che non l’ho fatto notare alla signora: non sono così crudele da distruggere le potenzialità d’un pettegolezzo coi fatti).
Una volta, a una domanda sulle eventuali improvvisazioni nel film (teoricamente autobiografico) “Caro diario”, Nanni Moretti rispose una cosa che suonava più o meno: uno non è spontaneo a casa sua, figuriamoci se è spontaneo mentre gira un film.
Se è vero che tutto quel che si scrive è autobiografico (secondo Borges, «sia che si dica ‘nacqui nel tal anno nel tal posto’, sia che si dica ‘c’era un re che aveva tre figli’»), è anche vero che nessuna autobiografia è davvero autobiografica.
Nel momento in cui scrivi “io”, già non sei più tu, anche quando lo scrivevi sul diario col lucchetto sospettando che tua madre l’avrebbe scassinato con la forcina, figuriamoci quando giri un film cambiando i nomi.
E infatti Alma – bambina protagonista, voce narrante, biondina poliglotta – non è Ginevra. E la ragione per cui lo so è che Alma ha i capelli lisci. Se pensate sia un dettaglio da poco, non siete mai state bambine ricce. Non sapete che portata devastante questa caratteristica possa avere nella vostra infanzia, e non siete mai state grate dell’esistenza di Ginevra Elkann, unica riccia ricca che abbia mai visto (tranne Ginevra e Afef Jnifen, le ricche non sono geneticamente ricce, oppure hanno un parrucchiere che le stira all’alba prima che si facciano vedere da noi: non c’è gran differenza tra le due ipotesi).
Alma, Ginevra l’ha fatta povera. O comunque: che vive da povera, nel corso d’alcuni giorni trascorsi col padre separato e squattrinato. Otto anni fa, sposata da poco, Ginevra andò in tv (son capaci tutti di non far saper niente di sé stando chiusi in casa: la bravura è non far saper niente di te facendoti intervistare). Daria Bignardi le chiese se, essendo suo marito principe, la suocera fosse principessa. Lei, con l’educato disinteresse delle ben nate, disse: «Non so, non capisco bene come funziona».
Non fosse liscia e poliglotta e alter ego d’un’erede alla marinara, Alma potrebbe essere una di noi. Perché “Magari” è un film più pieno di madeleine anni 80 di quanto lo fosse “Sposerò Simon Le Bon” (che aveva lo svantaggio d’essere un film al presente: mica ti struggi sulle marche di piumoni che indossavi da piccola, quando sei ancora piccola).
Di Vanzina in tv e Ricchi e poveri dal giradischi alle feste, di autoradio e di Umberto Tozzi e di Julio Iglesias, di motorini coi pedali e bambini più grandi che dicono alle più piccole «cbcr» («cresci bene ché ritorno»: si usa ancora o il lessico preadolescenziale si è evoluto?), di occhiali a specchio rubati ai mercatini.
È un film che cerca di farti dimenticare che l’autrice vestisse alla marinara e ti dice che Alma potresti essere tu fin dal primo istante, da quella prima scena, da quella prima battuta di dialogo che, secondo Mike Nichols, serve per dire allo spettatore «ecco chi sono, ecco cosa ti racconto».
La prima cosa che dice Alma alla messa ortodossa è «pain au chocolat, croissant»: è una bambina che parla francese pur avendo un nome italiano, ma soprattutto è una bambina digiuna perché «nella messa ortodossa, la comunione si fa a stomaco vuoto». Anche se non è riccia come noi, Alma, come noi, pensa innanzitutto ai carboidrati.