Buchi neriI Cinquestelle sono l’equivalente del partito di Fini, ma il Pd non lo ha ancora capito

La favola del governo senza alternative non regge: c’è abbondanza di truppe parlamentari disponibili, che attendono solo il pretesto per arruolarsi, e dovizia di motivazioni ben più che pretestuose per radunarle

da Snappy Goat

Ricordo ancora la tovaglia di carta della trattoria su cui un autorevole consigliere-ideologo del Partito democratico, all’inizio della lunghissima crisi della maggioranza berlusconiana destinata a sfociare un anno dopo nel governo Monti, tracciava risultati e configurazioni parlamentari frutto di ipotetiche elezioni anticipate, incalzandomi: «A Fini, per esempio, quanto daresti?». E poi, scuotendo la testa spazientito dalla reazione – la mia solita invettiva contro la fantapolitica spacciata da sondaggisti e retroscenisti per dibattito pubblico – proseguiva: «Teniamoci bassi, diciamo l’11 per cento».

Risparmio il resto del gioco, con le percentuali degli altri partiti e le conseguenti alleanze ipotetiche, perché non le ricordo e perché, a dare la misura dell’attendibilità dei dati in base ai quali si tracciavano simili strategie, basta e avanza quell’11 per cento, che quando alle elezioni ci si andò davvero, nel 2013, si trasformò in zero-virgola-quarantasette.

Tanto raccolse infatti Futuro e libertà per l’Italia, il partito di Gianfranco Fini. E da quel giorno, in pratica, non se ne parlò più.

A difesa dell’ideologo di cui sopra, va detto che al tempo delle sue elucubrazioni sondaggisti e retroscenisti pronosticavano al partito non ancora nato e al suo leader un avvenire talmente radioso che per diverse settimane si discusse addirittura della possibilità che l’ex segretario del Movimento sociale divenisse il leader del centrosinistra, e qualcuno lo vedeva già a Palazzo Chigi.

La ragione per cui rievoco questa triste vicenda è che la strategia del Partito democratico nei confronti del Movimento 5 stelle ricorda molto da vicino quella seguita allora con i futuristi finiani, tanto più ora che si torna a parlare di grandi manovre in vista di possibili – e assai improbabili – elezioni anticipate.

Il fatto è che da tempo Giuseppe Conte non è più «un punto di riferimento fortissimo per tutte le forze progressiste», come lo definì Nicola Zingaretti, e alla favola della sua presunta insostituibilità, ormai, non crede più nessuno.

Ammesso che lo sia mai stato in passato, di sicuro oggi il governo Conte appare tutt’altro che insostituibile, e il bello è che il merito principale di questo stato di cose va proprio ai Cinquestelle, che hanno riempito le Camere di persone arrivate lì praticamente per caso (come dimostra il formidabile tasso di abbandono del loro gruppo) e consapevoli di avere scarsissime probabilità di tornarci (per l’inarrestabile processo di autoliquidazione del loro partito e per il taglio dei seggi da loro stessi voluto).

Se ci pensate, è un bel paradosso: se la prendevano con i morti viventi della vecchia politica e hanno riempito le aule di parlamentari-zombie, pronti a qualunque compromesso, cui devono aggiungersi buona parte degli eletti di Forza Italia, dal futuro non meno incerto, per ragioni legate all’inevitabile declino della monarchia berlusconiana, che non lascia eredi.

Se a questa condizione di partenza si aggiunge l’imperversare di una pandemia mondiale e della tremenda crisi economica che ne seguirà, è difficile immaginare una situazione maggiormente propizia a qualsiasi manovra parlamentare possibile immaginabile. Basta ricordare che nel 2017 la principale motivazione con cui politici, giornalisti e conduttori televisivi ci spiegavano che non si poteva assolutamente andare a elezioni anticipate consisteva nella coincidenza tra l’inizio della campagna elettorale e il fondamentale G8 di Taormina, del quale nessuno ha conservato memoria.

In altre parole, c’è abbondanza di truppe disponibili, che attendono solo il pretesto per arruolarsi, e c’è pure dovizia di motivazioni ben più che pretestuose in nome delle quali chiamarle a raccolta – crisi pandemica e crisi economica mondiale saranno un’emergenza almeno altrettanto grave del G8 di Taormina – per qualunque manovra si voglia mettere in campo. Serve solo un minimo di intelligenza, fantasia e coraggio.

E qui, ahimè, casca l’asino.

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