Un’annata così è rimasta indimenticabile nella storia della musica e non mi riferisco al 2020, in cui comunque sono usciti ottimi dischi, tra le poche cose che alfine ricorderemo con un certo piacere. In un tempo altrimenti da archiviare il più in fretta possibile. No, mi riferisco al 1995, un quarto di secolo fa.
Allora gli Oasis pubblicarono “(What’s the Story) Morning Glory?” considerata la pietra miliare del Brit Pop proprio mentre i Pulp di Jarvis Cocker ottennero la consacrazione dopo lunga gavetta con “Different Class”. Secondo album, “The Bends”, per i Radiohead, dove c’erano le basi per tutto ciò che arrivò dopo, almeno fino ad “Amnesiac”, quando insomma Thom Yorke scriveva davvero belle canzoni e lo stesso discorso si può fare per Bjork in “Post”, grande disco non ancora “contaminato” dagli eccessi intellettualistici (ma lì la colpa è di Matthew Barney che la spinse troppo sul versante criptico-mentale a lei non così congeniale). Da Bristol Tricky tirò fuori il suo capolavoro, “Maxinquaye” e lo stesso si può dire per PJ Harvey con “To Bring You My Love”. Due produttori inglesi, sotto il nome di Leftfiled, fecero cantare John Lydon nel singolo “Open Up”: l’elettronica aveva infine incontrato il punk.
Sul versante americano, scusate se è poco, esce il monumentale, barocco, eccessivo “Mellon Collie & The Infinite Sadness” degli Smashing Pumpkins. Debuttano i Foo Fighters e il supergruppo Mad Season formato da Layne Staley, voce degli Alice in Chains e da membri dei Pearl Jam, Screaming Trees e Walkabouts. Sono gli ultimi bagliori del grunge, la fine di una breve epoca.
D’accordo, ma che c’entra ora il 1995? “Colpa” di un album uscito in queste settimane, si intitola proprio così “1995” e lo hanno pubblicato Kruder & Dorfmeister, il duo austriaco cui si deve, a metà anni ’90, l’invenzione dell’elettronica chill out.
Completamente diversa dai suoni tesi ed esasperati di techno e house, più complessa e articolata del monocorde ambient, si presta a un ascolto rilassato, da decompressione, ritmi lenti e avvolgenti, contaminati da intrusioni jazz, inframezzati da glitch.
Elegante e citazionista, come l’immagine di copertina del disco d’esordio, “G-Stoned” del 1993, in cui K&D si fanno fotografare in bianco e nero nella stessa posa che fu di Simon and Garfunkel. Un omaggio sì, ma anche l’ambizione di far uscire la musica elettronica dal giro dei rave party e delle notti senza fine.
Dopo “The K&D Session” (1998), album doppio contenenti remix di pezzi famosi (tra questi “Heroes” di Bowie) e partecipazioni illustri (Depeche Mode, Roni Size, Lamb, David Holmes ecc…) ma niente di originale, ossia niente di prodotto apposta, K&D si eclissano. Al termine di questo lavoro, considerato tra i momenti migliori dell’elettronica d’ascolto anni ’90, K&D si dividono in progetti paralleli, Peace Orchestra e Tosca, ricomparendo di rado con qualche mix, l’ultima volta nel 2010. E rifiutando, con orgoglio e snobberia, le offerte di Bowie e U2 per lavorare sui loro progetti al fine di renderli migliori.
Per “1995”, uscito a sorpresa, si può davvero parlare dell’album perduto di K&D, che riporta all’attenzione un modo di fare musica ancora attualissimo, nonostante sia così legato al proprio momento, alle atmosfere trip-hop, a quell’ultima rivoluzione sonora che attende, almeno sul versante electro, ulteriori sviluppi.
Proponetene l’ascolto a un ragazzo e gli sembrerà scritto oggi, e forse è davvero così perché la musica ha il vantaggio, rispetto alle altre arti, di potere usufruire di orecchie nuove e di sensazioni diverse che non hanno bisogno necessariamente del passato, sennò non si spiegherebbe perché tanti teenagers amino ancora Morrison, Hendrix o Cobain. Così “1995”, un disco di venticinque anni fa, rischia di essere il migliore, o tra i migliori, del 2020.