Se nella Bologna degli anni Ottanta non sono diventata eroinomane, è stato per una serie di fortunate coincidenze. Per il terrore degli aghi. Perché a Bologna le pere se le facevano gli studenti fuori sede, e i bolognesi sono sì inclusivi ma non così tanto da concepire di frequentare i fuori sede.
Sono ragionevolmente certa che quelli che invece si sono accompagnati all’eroina, tuttavia, l’abbiano perlopiù fatto una volta scoperte le menzogne raccontate dalle campagne di sensibilizzazione. Ai miei tempi si portava molto «L’eroina ti fa diventare dipendente già dalla prima volta», che è un po’ meno scemo di «Dalle canne all’eroina è un attimo» (dev’essere un attimo immenso, perché tutti ma proprio tutti quelli che conosco si fanno o si sono fatti le canne, e pochissimi si sono fatti anche le pere), ma è comunque uno slogan pericoloso.
Quando provi una volta, scopri che non sei diventato dipendente, e che ti hanno quindi mentito, perché dovresti credere al resto? Quando ti dicono «ti distrugge la vita» e non aggiungono «dopo, perché prima ti fa stare benissimo», e tu provi ed è una figata e non ti pare affatto ti abbia distrutto la vita, come fai a fidarti? Fai prima a ritrovarti coi denti marci che a credere alle stronzate delle pubblicità progresso.
Le campagne per la lettura sono la malattia senile delle pubblicità antidroga. Quando eravamo piccini, la tv ci diceva che dovevamo leggere. Che, detto da quella che allora era la principale concorrente della lettura, faceva già ridere di suo.
Ma poi: leggere cosa? E per ricavarne cosa?
L’obiezione di grana grossa è che leggere (inserire qui nome d’autore del quale per darsi un tono si dica «non sarà mica uno scrittore, quello»: in genere è uno che vende molte più copie di quello che si dà un tono) non è certo come leggere (inserire qui un russo defunto).
Ma la tragedia è che neanche leggere le opere più o meno concordemente considerate d’un qualche valore garantisce niente. Alcuni dei peggiori scemi con cui vi capiterà di parlare avranno letto un sacco di buoni libri. Leggere buoni libri non serve a niente, neanche a capire i buoni libri.
Ogni tanto vado a vedere qualche influencer che su Instagram parla di libri, e mi colpisce sempre la mutazione antropologica. Una volta avevamo intellettuali che leggevano tre pagine e poi erano in grado di parlare autorevolmente di quel testo; adesso abbiamo questo paese reale che si sbatte, s’impegna, i libri se li legge tutti, e quello che riesce a cavarne è «è un romanzo supercarino».
Poiché nel frattempo la televisione è scomparsa dal nostro orizzonte, il più temibile concorrente dei libri è ora il telefono. E quindi, con quella magnanimità che quasi sconfina nel bullismo con cui i prodotti di successo consigliano i prodotti d’insuccesso, ora sono i social a dirci di leggere buoni libri.
Ieri su Twitter c’era un cancelletto che ridefiniva l’imbarazzo per conto terzi: #LaLetturaCreaIndipendenza. Il giochino sugli slogan contro la dipendenza faceva venire in mente lo «Scegliete la vita» di Trainspotting (coloro che inventano slogan assai facilmente parodiabili sembrano non aver mai alcuna contezza del ridicolo).
Il cancelletto l’ha lanciato Carlo Cottarelli, che per tutto il giorno ha ritwittato celebrità assortite che facevano il loro bravo monologhetto sulla lettura che crea indipendenza: Bruno Vespa, cui il telefono teneramente traballa e che vi ricorderà vostro padre quando prova a usare Facetime; Roberto Zaccaria, che diversamente dagli altri non riprende sé che monologa ma il suo studio, pieno di brutte lampade e di foto in cui lui e la Guerritore si baciano; Massimo Giletti che ci mette in guardia contro la mediocrità (non farò battute scontate); Luciana Littizzetto e Fabio Fazio, gli unici ad aver capito cosa non andasse nella campagna.
Se vuoi che brami un libro, devi vietarmelo, devi bruciarlo, devi dirmi che non sono ancora abbastanza grande o intelligente o preparata per leggerlo. Non devi incoraggiarmi, santiddio: leggete un libro sulla psicologia inversa, orsù. Fazio e Littizzetto ne avranno almeno sfogliato uno, quindi lei chiede «Ma tu leggi?», e lui: «No!».
Come «Scegliete la vita» faceva venir voglia di farsi le pere, «Non leggete percaritadiddio» farebbe forse venir voglia di leggere (ammesso non sia un consumo ormai irrimediabilmente fuori tempo: se consigli Moby Dick a un ragazzino cresciuto con Angry Birds, quello pensa che le tue sinapsi abbiano un ritardo).
Il video che fa più ridere è però quello di Oscar Farinetti, che esordisce dicendo che ha «appena finito di rileggere Furore di Steinbeck», e non fai in tempo a sospirare che santa pace, i danni di Baricco nella scelta dei titoli, i danni del darsi un tono nel dover sempre dire, dopo una certa età, che rileggi, mai che leggi, quand’ecco che prosegue: «E oggi il mio rapporto sul tema della multiculturalità e dell’inclusione è migliorato fortemente».
Avrà presentato un rapporto alle Nazioni Unite? Leggere romanzi tradotti, quindi, non serve a insegnarti una sintassi decente (e questo lo sa chiunque abbia mai ascoltato parlare un docente universitario), ma, si direbbe, neanche a farti illuminare dai temi del romanzo stesso: se per migliorare il rapporto, qualunque cosa esso sia, Farinetti ha dovuto rileggere, cosa gli avevano lasciato le prime letture di Furore? Non sarebbe stato più efficace rivedere qualche puntata della Schiava Isaura?
Cottarelli ha rituittato entusiasta tutto il giorno i monologhetti del ceto medio riflessivo sull’importanza di leggere, e ogni volta chiosava in purissimo doppiaggese «Grazie per partecipare alla campagna». Leggere non serve a niente, neanche a imparare che in italiano si ringrazia «di» partecipare. (Sì, lo so che i dizionari vi dicono che vanno bene entrambe; ma, appunto: leggere i dizionari non serve a niente).