A fine anno tutti si fermano un attimo per fare bilanci e con Burp!, nomignolo “digestivo” (in inglese significa rutto) della rubrica dedicata alla rassegna critica della scrittura gastronomica sul web non vogliamo essere da meno. Nata a inizio 2017 come Per un pugno di link su piattoforte.it, sito di Giunti Editore costretto alla chiusura, dal 17 aprile 2020 ha trovato nuovo nome e nuova casa su Gastronomika di Linkiesta. Questo per dire che sono stati sette mesi, considerando la pausa estiva di agosto e inizio settembre, che definire intensissimi è poco: in questo breve lasso di tempo la scrittura gastronomica è cambiata radicalmente, un po’ spinta dalla necessità, un po’ perché forse era matura per farlo. Tante volte ci siamo ritrovati a leggere che “niente sarà più come prima”, salvo poi ricrederci durante i primi accenni estivi di normalità, e di fronte alla voglia di ritrovare le certezze perse in primavera. Poi l’autunno, di nuovo l’abisso, di nuovo le promesse di cambiamento epocale, accompagnate però dalla consapevolezza che al cambiamento già si oppone e si opporrà una resistenza vigorosa. Una resistenza che, tuttavia, nulla ha potuto contro il mutamento di approcci e di tono negli articoli sul cibo. All’estero il coronavirus ha imposto un totale ripensamento del mondo della ristorazione, e lo sviluppo del movimento antirazzista seguito all’assassinio di George Floyd ha rimesso in discussione tutto, dalla critica ai media gastronomici tout court, dalla considerazione riservata ai lavoratori che con le loro braccia sostengono ristoranti, consegne, imprese agricole e mattatoi al mondo della grande distribuzione e delle filiere locali. In Italia, pur restando una certa “sonnolenza” di alcuni editori storici, si stanno apparecchiando piccole rivoluzioni, e a dare una dignità letteraria, culturale e politica ai temi gastronomici ci sta pensando una nuova schiera di autori e giornalisti che galleggia al di fuori o a cavallo (un piede di qua, uno di là) della piccola bolla scrittoria sul cibo.
Insomma, le prospettive lasciano ben sperare, e non a caso da più parti negli ultimi mesi sono arrivate le richieste di liberare la scrittura gastronomica dalla gabbia del lifestyle e dalla ripetuta idolatria degli chef. Vi ricordate l’articolo di Ruth Gebreyesus Food Writing Could Be Better, But It Will Need to Get Unappetizing First, o quelli di Alicia Kennedy e Kate Telfeyan (On Restaurants e How Food Media Created Monsters in the Kitchen)? Ecco, appunto.
In tutto questo, senza voler ridurre la questione a una classifica, l’ultimo Burp! dell’anno è dedicato a estrapolare il meglio del meglio, con menzione speciale per i due articoli (rispettivamente in lingua inglese e in lingua italiana) comparsi online da marzo a oggi.
In lingua inglese spicca un quartetto, a partire da un’intervista comparsa sul New Yorker: quella di Helen Rosner a Tunde Wey, gastronomo e attivista che intorno al mese di maggio ci diceva che se l’industria della ristorazione (statunitense) è marcia e corrotta come lui e molti altri denunciano e denunciavano, tanto valeva lasciarla crollare, addirittura (provocatoriamente) morire, per provare a ricostruirla su nuove basi. Poi è impossibile non dare giusto spazio all’articolo di Michael Pollan, guru della divulgazione intorno al cibo e non solo, che a giugno sulla New York Review raccontava come la pandemia avesse reso lampante l’inadeguatezza dei nostri sistemi di approvvigionamento alimentare e delle nostre diete. A chiudere il trittico newyorkese (qualcuno aveva dubbi che la Grande Mela sarebbe stata in cima nella selezione della migliore produzione scritta del 2020?) c’è Eric Asimov, che dalle colonne digitali del New York Times a ottobre ha denunciato la speculazione internazionale sulle più pregiate bottiglie di vino e l’antidemocraticità, per noi bevitori accaniti, di questo sistema.
L’articolo più bello e significativo del 2020 arriva però dalla Danimarca, paese adottivo di Lisa Abend, grande conoscitrice dell’universo gastronomico europeo: non a caso ci siamo spesi per intervistarla per l’edizione cartacea di Gastronomika uscita con Linkiesta a novembre. È un pezzo uscito il primo maggio che parla di Svezia, e di come i cuochi che rappresentano il settore dell’alta cucina di quel paese abbiano sperimentato sulla propria pelle la totale mancanza di clientela straniera unita alla possibilità di rimanere aperti, traendone una preziosa lezione. Tra i tanti insegnamenti della pandemia ce n’è infatti uno da non sottovalutare: il modello del fine dining così come eravamo abituati a conoscerlo ha le gambe fragili ed è insostenibile. È ora che anche l’alta ristorazione parli prima di tutto al proprio territorio e alla clientela locale, rinunciando a rivolgersi in modo pressoché esclusivo a un pubblico internazionale iper-elitario.
Veniamo ora all’Italia: anche qui un quartetto. Dicevamo dell’arrivo sulla scena autoriale italiana di nuove voci, spesso non di pura formazione gastronomica, ma interessate a raccontare il cibo attraverso punti di vista laterali, differenti. E Nadeesha Uyangoda di temi gastronomici probabilmente non aveva mai scritto, essendo il suo lavoro incentrato perlopiù sulle questioni razziali, identitarie e migratorie. Va dato il merito a Munchies di aver voluto ospitare un suo articolo sul razzismo nelle cucine italiane: un tema di cui pochissimi vogliono parlare, e che meriterebbe ulteriori approfondimenti. Arriva dall’esterno della bolla gastronomica anche il secondo autore segnalato, Danilo Zagaria. Scrivendo del legame tra allevamenti intensivi e virus per Il Tascabile ha reso un gran bel servizio alla presa di coscienza dell’insostenibilità del nostro sistema alimentare. Sempre sul tema si è speso Stefano Liberti, giornalista autore di numerosi reportage e libri, tra cui il nuovissimo Terra bruciata, di cui abbiamo parlato in un’intervista scritta e nella prima diretta Facebook targata Gastronomika e Linkiesta il 17 dicembre scorso. In un articolo di giugno per Internazionale sottolineava come a fronte di un minor consumo italiano di carne stessero crescendo gli allevamenti intensivi, un modello chiaramente pieno di storture.
Ma la menzione speciale del best of 2020 in lingua italiana va a Dario De Marco, che sempre a giugno su Esquire ha dato agli scritti legati alla pandemia uno sguardo culturale di bella profondità, parlando del senso dell’olfatto anche da un punto di vista gastronomico. Qui troviamo un esempio di come il nostro rapporto con il cibo possa diventare un tema ricco di nodi e intersezioni, che non si limitano a circolare nella bolla di cui sopra, ma possono stare dignitosamente allo stesso livello di riflessioni a-gastronomiche. Magari non ci sentiremo più dire «ah, scrivi di cibo?» con lo stesso tono (e sguardo) a cui ci siamo abituati. Lo speriamo.
Detto questo, Burp! va di nuovo in vacanza, ma solo in apparenza. A gennaio si ferma per tornare in una veste rinnovata a febbraio. Chi ci ama, ci segua.