Logica da pentapartitoLa richiesta di rimpasto era politicismo puro, e infatti è naufragata (per adesso)

Se la volontà di introdurre nuovi innesti nel governo fosse legata a un progetto politico e a idee specifiche allora la cosa cambierebbe e diventerebbe argomento di discussione pubblica, invece chi chiede nuove figure non è riuscito a staccarsi dalla manovrina di corrente o di partito fine a se stessa, o meglio finalizzata a mutare equilibri di mero potere. E nulla è cambiato

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La telenovela del rimpasto sta segnando il passo, esattamente come avviene in certe fasi di “Un posto al sole” o del celebrato “Il paradiso delle signore”, e in queste ore c’è poco da segnalare. Siccome si è capito che Giuseppe Conte ne ha paura come i bambini dei tuoni, e anche per accontentare un Quirinale sempre attento a evitare possibili scossoni, è probabile che la pratica per ora verrà accantonata, pronta a riaprirsi a gennaio.

La questione infatti della debolezza politica ma anche di personale politico del governo giallorosso non è un’invenzione degli osservatori ma un problema di fondo – a partire dalla bizzarra genesi del Conte bis – che per il momento può solo essere messa da un canto nel nome dell’emergenza: anche se il governo deve stare molto attento a quello che può succedere in ogni momento in Parlamento, stante l’annunciatissimo rientro di Silvio Berlusconi sotto le insegne di Salvini.

L’operazione forse è stata condotta male. È apparsa come una mera rivendicazione personale di un ruolo: questo ha detto chiaro e tondo il Presidente del Consiglio – anche se poi lo ha fatto smentire – con evidente riferimento a Matteo Renzi, il più papabile nuovo ingresso nell’esecutivo. Se il rimpasto appare come la solita manovrina di corrente o di partito fine a se stessa, o meglio finalizzata a mutare equilibri di puro potere, alla fine appare per quella che fondamentalmente è: politicismo puro.

Ma se invece la richiesta di nuovi innesti (diciamolo in italiano) fosse legata a un progetto politico e a idee specifiche allora la cosa cambierebbe e diventerebbe argomento di discussione pubblica e non gioco delle tre carte nel sottoscala di Montecitorio. Facciamo un paio di esempi.

Se Goffredo Bettini e Matteo Renzi – citiamo non a caso i due che più esplicitamente hanno parlato di rafforzamento della squadra di governo – dicessero che c’è bisogno di un nuovo ministro per il Recovery fund, una figura che guidi e coordini tutta la fase dell’elaborazione dei piani, la trattativa con Bruxelles, l’implementazione dei singoli progetti, insomma tutto, a quel punto si potrebbe pensare ad una persona specifica con le caratteristiche giuste per assolvere a questo compito.

Invece di avere un triumvirato, sei manager più trecento consulenti si potrebbe avere un solo ministro e due sottosegretari, coadiuvati dagli staff dei ministeri competenti. Matteo Renzi, Andrea Orlando, Nicola Zingaretti, Carlo Calenda, Irene Tinagli, Carlo Cottarelli, o lo stesso Vincenzo Amendola, e chi più ne ha più ne metta, potrebbero benissimo assolvere al ruolo.

Non tocca a Bruxelles decidere su questo, come ha ricordato Paolo Gentiloni, e tuttavia scommetteremmo che in Europa si preferirebbe avere un solo, riconoscibile, autorevole referente invece dell’Azione parallela ideata dall’avvocato del popolo.

E ancora: se i due politici prima citati, oppure il segretario di un partito, dicessero che occorre rimettere mano alla politica per il lavoro con maggiore efficacia di quella sinora dimostrata dalla ministra Nunzia Catalfo, ecco che si potrebbe pensare a un figura specifica, un Marco Bentivogli, un Enrico Giovannini, un Tito Boeri.

Stesso discorso per la giustizia, per la scuola, per qualunque dicastero. Le persone vanno collegate con le idee. È sbagliato e controproducente dunque sostenere che quasi per principio occorra un ministro di Italia viva, o del Partito democratico, in più: questa è logica da pentapartito anni Ottanta. Una logica che troppo spesso è assunta dai politici attuali, sempre pronti a curare il proprio orticello mentre la casa brucia.

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