«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto è espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma la nostra Palermo. Povera la nostra Palermo: come difenderla?». A distanza di 38 anni lasciano ancora attoniti le parole pronunciate dal cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, davanti ai feretri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Si deve al porporato, che pur l’attribuì erroneamente al De bello Iugurthino di Sallustio, se il celebre passo liviano sopravvive nella memoria comune come j’accuse antonomastico contro uno Stato imbelle nello sgominare Cosa Nostra.
Si deve alle sue parole, vibrate in San Domenico, il Pantheon dei palermitani, tra lo scroscio d’applausi di una folla rabbiosa e lo sgomento di tanti rappresentanti delle istituzioni, se il 13 settembre 1982, appena otto giorni dopo le esequie, il secondo Governo Spadolini varava la famosa legge Rognoni-La Torre, che introduceva per la prima volta nel Codice penale italiano il reato di associazione di tipo mafioso. Quel Giovanni Spadolini che con l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, l’uno e l’altro presenti ai funerali, erano, come osservato da Fabrizio Lentini, «simbolo di un’Italia diversa da quella dei silenzi, delle omissioni, delle complicità morali, ma costretti a portare la croce per tutti, a schivare gli insulti e le monetine di una Palermo esasperata e furente».
Non poteva dunque Giovanni Bonanno scegliere per il suo ultimo libro titolo migliore di Pappalardo cardinale dell’arte a Sagunto. Edito il 2 dicembre scorso per i tipi Rizzoli, il volume ripercorre per iscritto e per immagini – 40 in tutto a corredo dei 22 capitoli che lo compongono – i 26 anni di episcopato palermitano e gli ultimi dieci da emerito del porporato siciliano in una prospettiva del tutto inedita. È la via pulchritudinis quella che si disvela al lettore e che solo un presule montiniano come Pappalardo poteva convintamente seguire, facendo di Palermo un faro di arte e cultura in una stagione di barbarie, violenza e bruttura. Bruttura, di cui la città portava visibilmente impresse le stigmate di una tale devastazione edilizia e paesaggistica da apparire come corpo sfigurato, deforme, deturpato nella sua nativa bellezza.
Nella nuova Sagunto espugnata e messa a sacco Salvatore Pappalardo «intuisce che l’arte contemporanea – così l’autore – può costituire strumento di promozione umana e di evangelizzazione perché, oltre a essere segno di bellezza, possiede la forza profetica dell’accusa e della liberazione». Nominato arcivescovo di Palermo da Paolo VI il 17 ottobre 1970 ed entrato in diocesi il 6 dicembre successivo, il presule, che riceverà la porpora dallo stesso Giovanni Montini il 5 marzo 1973, non è un critico d’arte. Ma dell’arte subisce il fascino irresistibile e la portata di un magistero, di cui la Chiesa, e lui lo sa bene, ha riconosciuto costantemente il significato nella sua storia bimillenaria.
Per questo motivo si pone subito in dialogo ma ancor più in ascolto di quei poeti e profeti che, sulla scorta di Paolo VI, ravvisa in pittori e scultori. Conquista a una tale causa i suoi collaboratori Edoardo Angelis e Giuseppe Pecoraro, che avranno un ruolo fondamentale nella prima Rassegna nazionale del Sacro nell’Arte Contemporanea. La mostra, inaugurata nel Palazzo arcivescovile il 10 aprile 1976, è frutto di due anni di preparazione, scanditi dagli incontri con l’arcivescovo Giovanni Fallani, presidente dell’allora Pontificia Commissione centrale per l’Arte Sacra in Italia, con il critico Maurizio Calvesi e con il maestro Corrado Cagli.
L’artista non potrà presenziare all’inaugurazione, perché scomparso il 28 marzo di quell’anno. Ma sarà presente alla Rassegna attraverso i suoi arazzi – e le scenografie per la Missa brevis di Stravinskij, eseguita in Cattedrale il 4 maggio dalla Sinfonica Siciliana e dalla Filarmonica romana alla presenza dell’episcopato insulare – come Fausto Pirandello, morto alcuni mesi prima, lo sarà con le sue Crocifissioni. Tra le opere ospitate si va, ad esempio, dal Cristo Divino Lavoratore di Giorgio De Chirico alla Salomè di Giacomo Porzano, dallo Studio per la Crocifissione di Renato Guttuso alla Nigra sum sed formosa di Ugo Attardi, da E le nostre madri piangono di Giuseppe Migneco al Ritratto di un papa di Floriano Bodini. Capolavoro scultoreo, quest’ultimo, di tale efficacia rappresentativa che anni prima Dino Buzzati ne aveva parlato come «impressionante, spiritato, somigliantissimo e in fondo crudele ritratto di Paolo VI». D’altra parte lo stesso Pappalardo, che, come ricorda l’autore, si improvvisa spesso cicerone, spiega l’opera ai visitatori – se ne registrarono complessivamente circa 40.000 –, come un’interpretazione della problematicità della Chiesa conciliare e di Montini. Di colui, cioè, che Giovanni XXIII non aveva esitato a definire l’Amleto di Milano.
Per il crociano Fortunato Bellonzi, presidente della Quadriennale di Roma, con la Rassegna si è di fronte alla manifestazione di «un nuovo umanesimo» e viene veicolata l’idea che gli artisti, sollecitati da Pappalardo, hanno «dell’uomo ’nel cui volto pensoso è possibile contemplare il volto di Cristo’». Ma non tutti comprendono. A partire dai soliti moralisti locali, che si scagliano contro la Tragedia Greca di Silvio Benedetto per le nudità degli scheletri rappresentati. Il rumore è tale che l’artista argentino ritirerà poi dalla Rassegna il telero insieme ad altre due opere messe sotto accusa.
Ma a suscitare clamore sono le stesse parole che Pappalardo pronuncia all’inaugurazione del 10 aprile quando, dopo aver riservato alcune stanze per sé e i successori, consegna ufficialmente il Palazzo Arcivescovile, sede della Rassegna, ai palermitani. «È opportuno – dice – che essi lo usino convenientemente come “bene culturale” e lo offrano in godimento agli altri visitatori».
Polemiche accompagneranno anche la seconda Rassegna nazionale, che si sarebbe tenuta dall’8 aprile al 20 maggio 1978 con l’esposizione di opere di 53 artisti. D’altra parte il porporato non è sempre capito dal clero e, ancor meno, dall’onnipotente Dc locale sì da essere bollato come “l’amico dei comunisti”. Pappalardo spiazza e disorienta, anche perché ci si aspettava ben altro da un presule, formatosi nella Roma di Pio XII, a lungo componente della Segreteria di Stato e poi impegnato nel servizio diplomatico della Santa Sede prima come pro-nunzio apostolico in Indonesia, poi come presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica.
Tanti i successi conseguiti dall’arcivescovo di Palermo: ad esempio, l’organizzazione di altre mostre prestigiose, la riapertura del Museo diocesano e, a livello nazionale, la realizzazione dell’Evangeliario della Chiesa italiana. Opera, questa, che esemplata sui miniati trecenteschi, è impreziosita delle opere grafiche di Annigoni, Bodini, Cassinari, Ciminaghi, Conti, Crocetti, Fazzini, Fiume, Greco, Guttuso, Manzù, Mazzullo, Migneco, Porzano, Sassu, Tamburi, Treccani, Ziveri e della custodia realizzata dallo stilista Giorgio Armani. Non pochi anche gli smacchi cocenti subiti, come il no dei Beni Culturali a far esporre al Louvre gli argenti diocesani o il boicottaggio del progetto di porte bronzee per la Cattedrale di Palermo.
Non si può infine non rilevare come il volume, di cui bisogna in ogni caso lamentare la totale mancanza di note bibliografiche, contenga un autentico tesoro: la trascrizione di un breve appunto autografo di Pappalardo. Datato 18 luglio 1984, esso comprova, una volta per tutte, che Sandro Pertini desiderava davvero nominare senatore a vita il “cardinale di Sagunto”, di cui aveva ascoltato le potenti parole dannatorie ai funerali di Dalla Chiesa. Eccone il testo: «Giunge una telefonata dal Quirinale. È il Presidente Pertini che vuole parlare con il cardinale: Buona sera, Eminenza. Io lo volevo, io lo volevo… Volevo proprio farla Senatore a vita… Lei lo merita ecc. … Ma in Vaticano mi dicono di non farlo… Sarebbe motivo di difficoltà… Ma lei sappia che io la stimo e la volevo proprio fare… Ho ringraziato il Presidente della sua intenzione, gli ho fatto capire che condividevo pienamente le difficoltà del Vaticano… gli ho detto che andrò a trovarlo qualche volta al Quirinale… Sì, sì, venga, la attendo a colazione».