«Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960», spiegò Leonardo Sciascia nel 1972, nell’introdurre un’edizione di “Il giorno della civetta” in una collana di Letture per la scuola media per la Einaudi. «Allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava», aggiungeva. «La seduta alla Camera dei deputati rappresentata in queste pagine è sostanzialmente, nella risposta del governo ad una interrogazione sull’ordine pubblico in Sicilia, vera. E sembra incredibile: considerando che appena tre anni dopo entrava in funzione una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia».
Sono ora appunto 60 anni dalla pubblicazione del primo romanzo di Sciascia: il 9 ottobre 1960 sulla rivista Mondo Nuovo, anche se il libro vero e proprio sarebbe stato pubblicato da Einaudi nel 1961. È dunque il vero inizio di una strepitosa carriera letteraria da parte di un autore che all’epoca aveva già 39 anni, ma fino a quel momento aveva scritto solo poesie, racconti, saggi e un abbozzo di autobiografia.
Tecnicamente non è, invece, il primo giallo italiano. A parte un romanzo di Francesco Mastriani uscito nel 1852 dal titolo “Il mio cadavere” e a parte alcuni altri esempi ottocenteschi, che però sono più noir che polizieschi veri e propri, negli anni ’30 Augusto De Angelis aveva creato un Commissario De Vincenzi che però, per un preciso vincolo imposto dal regime fascista, poteva trovare come colpevoli solo stranieri.
Per lo stesso motivo nel 1940 Giorgio Scerbanenco aveva creato un detective, Arthur Jelling, che agiva negli Stati Uniti, mentre nel 1957 “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda è sì impregnato di umori romani e romaneschi, ma chiaramente con un interesse che va più per lo sperimentalismo di linguaggio e trama che non per il meccanismo poliziesco.
Insomma, è “Il Giorno della civetta” il primo giallo italiano in cui un detective italiano indaga su un delitto italiano con un intento che è di precisa denuncia civile. Appunto, affermare con forza l’esistenza di una forma di criminalità organizzata di cui fino a quel momento si affermava spesso che era solo «una invenzione dei giornali» o «dei continentali». «A quel momento, sulla mafia esistevano inchieste e saggi sufficienti a dare al governo e all’opinione pubblica nazionale la più precisa informazione», ricordava Sciascia.
«Non ancora pubblicata, ma nota nei risultati, l’inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia (1875) e quella parallela, condotta di propria iniziativa da due giovani studiosi, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (e questi doveva poi arrivare, nel 1906 e nel 1910, a presiedere il Consiglio dei ministri); gli scritti di Napoleone Colajanni; il saggio di un ex funzionario di Pubblica Sicurezza, Giuseppe Alongi, intitolato “Maffia”; le memorie dell’ex prefetto Cesare Mori che negli anni del fascismo era stato mandato in Sicilia per reprimere, con pieni poteri, ogni manifestazione mafiosa».
E però, secondo la disamina puntigliosa dello stesso Sciascia, «di opere letterarie, romanzi racconti teatro, e sono quelle che meglio del saggio e dell’inchiesta raggiungono e informano un pubblico più vasto, ce n’erano soltanto due: una di livello popolare, ed era popolarissima, che rappresentava un mondo di piccoli mafiosi di quartiere – ladri soverchiatori violenti: ma non privi di sentimento e suscettibili di redenzione – che si intitolava “I mafiusi di la Vicarìa” (commedia in dialetto di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca; e la Vicarìa era il carcere di Palermo, allora famoso quanto oggi quello dell’Ucciardone); l’altra, “Mafia”, pure scritta per il teatro, in italiano, da Giovanni Alfredo Cesareo (professore all’Università di Palermo, poeta e traduttore di Shakespeare), che rappresentava una borghesia che assumeva la mafia quasi come una ideologia e la praticava come regola di vita, dei rapporti sociali, della politica». Attenzione a Shakespeare. Quel titolo sul rapace notturno, che sembra così alludere a proverbi o rituali locali, è invece preso da un verso dell’Enrico VI. «Come la civetta quando di giorno compare».
Entrambe quelle opere, ricordava Sciascia, «a livello diverso, erano un’apologia non della mafia come associazione delinquenziale (che in questo senso si negava esistesse), ma di quello che il più grande studioso delle tradizioni popolari siciliane, Giuseppe Pitré, chiamava “il sentire mafioso”: cioè di una visione della vita, di una regola di comportamento, di un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi dello Stato».
Non è chiaro se per scherzo del destino o per precisa nemesi, proprio in occasione di questi 60 anni è venuto lo scandalo Angela Maraventano: già senatrice della Lega e vicesindaco di Lampedusa, che alla kermesse pro Salvini del 3 ottobre a Catania se ne è uscita col rimpianto di una buona mafia dei tempi andati, vista proprio in stile Rizzotto-Mosca-Cesareo. «La mafia non ha più la sensibilità e il coraggio di prima. Non difende più il proprio territorio».
Il 4 ottobre Matteo Salvini a Non è l’arena, pur spiegando di non aver sentito perché «impegnato in altro» e che probabilmente la Maraventano si era «espressa male», ha tenuto a ribadire in modo greve: «La mafia per tutti è merda». Che è poi il punto di vista che si è affermato anche in Sicilia nel sentire comune proprio anche grazie al filone iniziato con “Il giorno della civetta”.
E il 5 ottobre la stessa Maraventano ha dovuto dare le dimissioni dal partito, pur protestando contro la «strumentalizzazione della sinistra e dei giornali», e chiarendo il suo pensiero in termini che sembravano cercare una impossibile quadra: «La nostra mafia l’abbiamo eliminata definitivamente, non esiste più nel nostro paese, in Sicilia, e questo è stato possibile grazie al centrodestra, grazie a ministri come Maroni. Il problema è che ora in questo vuoto si sono inserite le mafie degli altri, a cominciare dai tunisini».
«Ma la mafia era, ed è, altra cosa», aveva risposto Sciascia in quello scritto del 1972. «Un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta».
E qui Sciascia preannuncia quella distinzione tra «società estrattive» e «società inclusive» che è alla base della famosa analisi sul “Perché le nazioni falliscono” formulata nel 2012 da Daron Acemoğlu e ripresa anche da alcuni recenti studiosi meridionalisti, come Emanuele Felice nel suo libro del 2014 “Perché il Sud è rimasto indietro”. Insomma, la mafia siciliana come caso particolare di un più generale modello di élites dominanti che bloccano lo sviluppo appunto perchè interessate soprattutto a “estrarre” risorse dalle società, piuttosto che a farle decollare.
Proprio perché il problema va oltre la contingenza del partito in quel momento al governo, Sciascia nel suo libro sta bene attento a non concentrare le responsabilità su una parte politica particolare, e a riportare invece la realtà in tutta la sua complessità. «Sono i comunisti a inventare che esiste una cosa chiamata mafia», è la tesi che i “cattivi” della storia cercano di ripetere. Ricorda un po’ il modo in cui l’attuale centro-destra italiano tende condurre molti dibattiti liquidando le controparti come «sinistre» o «comunisti». Pure Biden viene presentato come «comunista»!
Ma Sciascia chiarisce che Salvatore Colasberna, il presidente di una piccola impresa edilizia il cui omicidio fa partire la storia, è in realtà socialista, mentre il capitano Bellodi, implacabile detective, è un emiliano di Parma ex partigiano e di famiglia repubblicana. Corrisponde a un personaggio vero: il comandante dei carabinieri di Agrigento Renano Candida, che era stato appunto partigiano, e che sarebbe arrivato a generale. Aveva scritto un saggio sulla mafia che nel 1957 Sciascia aveva fatto pubblicare e recensito, da cui sia l’amicizia tra i due, sia le informazioni di prima mano alla base del romanzo.
Bellodi-Candida nel libro spiega con chiarezza che per colpire la mafia bisogna imitare il metodo usato negli Usa con Al Capone, e andare a controllare i flussi di denaro e le tasse. Insomma, il metodo Falcone. Il mafioso che parla con un politico che si intuisce essere democristiano protesta: «Si è mai sentito uno sbirro parlare così a un galantuomo? È un comunista, solo i comunisti parlano così». Ma il democristiano risponde: «Non sono solo i comunisti, purtroppo: anche nel nostro partito ce ne sono che parlano così… Se tu sapessi la battaglia che dobbiamo sostenere giorno per giorno, ore per ora…». «Lo so, ma io faccio giudizio netto: sono comunisti anche loro». «Non sono comunisti». Mafia a parte, anche questo sembra un dibattito da social di oggi.
Per coprire il primo delitto ce ne scappano altri due, e a un certo punto il capitano arresta il padrino don Mariano Arena. Proprio don Mariano fa al capitano un discorso destinato a rimanere a sua volta nella memoria collettiva: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…».
«Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…», spiega il padrino. Perché il capitano rispetta le regole e le garanzie, e non tortura i prigionieri come era capitato allo stesso don Mariano ai tempi del prefetto Mori. E qui il discorso di Sciascia si fa ancora più complesso.
Da una parte, infatti, ammette che in Sicilia molti ancora ricordano con favore il fascismo proprio per la sua azione energica contro la mafia. Dall’altra, però, rivendica le ragioni del garantismo, anche nel combattere un flagello come la mafia. Quelle stesse che lo porteranno a diventare deputato radicale, dopo essere stato consigliere comunale del Pci. E anche, poco prima di morire, ad attaccare i «professionisti dell’antimafia» alla Leoluca Orlando, per cui verrà rilanciata proprio contro lui l’infamante etichetta di «quaquaraquà».
«Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottoufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre.
Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni». «“E questa è forse la ragione per cui in Sicilia” pensava il capitano “ci sono tanti fascisti: non è che loro abbiano visto il fascismo solo come una pagliacciata e noi, dopo l’otto settembre, l’abbiamo sofferto come una tragedia, non è soltanto questo; è che nello stato in cui si trovavano una sola libertà gli bastava, e delle altre non sapevano che farsene”».
Nel libro Bellodi verrà poi trasferito al Nord, dove leggerà sui giornali spediti da un carabiniere dalla Sicilia che il castello probatorio è stato smantellato grazie a un alibi di ferro costruito da rispettosissimi personaggi: opera, naturalmente, di uomini politici interessati a tutelare la propria posizione. Dal libro nel 1968 verrà tratto un film per la regia di Damiano Damiani e con un cast internazionale di prim’ordine. Bellodi lo interpreta infatti Franco Nero, don Mariano è il grande caratterista hollywoodiano Lee J. Cobb, la vedova Rosa è Claudia Cardinale, il delatore Parrinieddu è il francese Serge Reggiani, il mandante Pizzuco è l’israeliano Nehemiah Persoff, il killer Zecchinetta è il regista e sceneggiatore Tano Cimarosa.
La trama è ampliata e complicata: a un certo punto Don Mariano in segno di rispetto salva il capitano dall’attentato dinamitardo che avevano preparato alcuni suoi «picciotti» senza avvisarlo. La la famosa frase è censurata, trasformando i «pigliainculo» in «ruffiani». In compenso, nel finale proprio osservando il nuovo capitano al balcone Don Mariano conclude: «È un quaquaraquà».
Anche la complessità politica è semplificata, col mostrare semplicemente Don Mariano che entra in una sede dello scudo crociato. E il garantista Bellodi, di cui non si dice che è stato partigiano, acquisisce sullo schermo metodi più spicci, non proprio da osservatore scrupoloso delle procedure. Possiamo ipotizzare che lo scontro tra Sciascia e Orlando è adombrato dalle differenze tra il Bellodi di carta e il Bellodi di celluloide? Certo, Damiani è il regista che poi sempre sulla mafia inizierà la lunga saga della Piovra.
E rivedendo “Il Giorno della Civetta” di Damiani oggi è difficile non pensare anche al commissario Montalbano. Proprio come il Bellodi di carta, il personaggio di Andrea Camilleri è col cuore a sinistra, o comunque dalla parte dei deboli contro i prepotenti. Proprio come il Bellodi di celluloide, e anche come quel Maigret di cui il suo autore aveva curato la trasposizione Rai, ha però metodi da destra dura, per cui appunto le procedure sono un optional. Cosa che probabilmente Sciascia non avrebbe gradito troppo. In compenso, mentre nella Sicilia di Bellodi gli omicidi di mafia vengono fatti passare per delitti d’onore, in quella di Camilleri è quasi sempre il contrario. I famosi Sinagra e Cuffaro vengono tirati in ballo in automatico, in continuazione. Ma regolarmente si scopre che il colpevole è un altro.