Quella della Repubblica Popolare Cinese su Hong Kong è ormai una svolta di sapore nazista. E non è una iperbole polemica. Sarebbe stata proprio l’influenza crescente del pensiero di Carl Schmitt a portare il regime dalla fase semplicemente non liberale che stava attraversando dai tempi delle modernizzazioni di Deng Xiaoping a una fase apertamente non liberale, che da quando Xi Jinping è al potere avrebbe raggiunto il parossismo.
La tesi è di Chang Che: sinologo appunto di origine cinese, oltre che analista di politica Usa e di tech policy. Direttore esecutivo della Oxford Political Review, la ha spiegata in un saggio su The Atlantic, citando peraltro l’italiana Flora Sapio, che insegna Storia Internazionale dell’Asia Orientale all’Orientale di Napoli.
Ma va peraltro ricordato che Schmitt, dopo aver rischiato di essere incriminato a Norimberga e dopo essere stato bollato come «criminale giurista», è stato largamente rivalutato proprio in Italia, da un parterre di studiosi ideologicamente trasversale che va da Gianfranco Miglio a Massimo Cacciari passando per nomi come quelli di Giorgio Agamben, Pietro Barcellona, Emanuele Castrucci, Fulco Lanchester, Angelo Bolaffi, Danilo Zolo, Carlo Galli, Giacomo Marramao. Non solo da noi: tra i suoi estimatori sarebbero da citare pure Walter Benjamin, Leo Strauss o Jacques Derrida.
Ma in un Paese che come il nostro è spesso ossessionato dallo scovare il fascismo dappertutto è per lo meno singolare questa fascinazione per un personaggio che, dopo aver lanciato all’inizio degli anni ’30 lo slogan della «Rivoluzione Conservatrice», aveva aderito il primo maggio del 1933 al Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi, nel novembre dello stesso anno era divenuto presidente della Unione dei Giuristi Nazionalsocialisti, e nel giugno successivo direttore della Rivista dei Giuristi Tedeschi.
Nel dicembre del 1936, è vero, la rivista delle SS lo aveva poi preso di petto, tacciandolo di «opportunista» e imponendone l’emarginazione. E nel 1937 era stato oggetto di un rapporto riservato del regime, in cui si accusava in particolare il suo «papismo».
Intanto, però, aveva fatto in tempo a sciogliere un peana a quelle Leggi di Norimberga che nel 1935 avevano proibito ogni relazioni non solo matrimoniale ma anche sessuale tra ebrei e «ariani». «Oggi, il popolo tedesco è ritornato ad essere tedesco, anche da un punto di vista giuridico. Dopo le leggi del 15 settembre, il sangue tedesco e l’onore tedesco sono ritornati ad essere i concetti portanti del nostro diritto. Lo Stato è ormai un mezzo al servizio della forza dell’unità völkisch. Il Reich tedesco ha un solo stendardo, la bandiera del movimento nazionalsocialista; e questa bandiera non è solamente composta di colori, ma anche di un grande e autentico simbolo: il segno del giuramento popolare della croce uncinata».
Malgrado la teorica emarginazione durante la guerra aveva poi fornito consulenza giuridica sia alle aggressioni tedesche, sia alla politica di occupazione.
Ma in particolare la sua teoria del rapporto «nemico-avversario» come criterio costitutivo della dimensione del politico sembra aver stregato la nostra politologia, in particolare nell’epoca di passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: assolutamente ossessionata dall’obiettivo di realizzare una «democrazia dell’alternanza» a tutti i costi, e sprezzante verso quell’altra dimensione politica della cooperazione, sprezzantemente bollata come «inciucio».
Ma forse proprio questa storia italiana dimostra la incredibile capacità di Schmitt a reagire con i più diversi contesti politici, fino a produrre gli esiti più sorprendenti.
E se dunque da noi l’impatto è stato su una critica annosa al «bipartitismo imperfetto» alimentata dalle analisi di Maurice Duverger o Giorgio Galli, se nella Repubblica Federale di Germania in contrapposizione a Weimar sono tipicamente schmittiani l’istituto della sfiducia costruttiva o le forti barriere alle modifiche costituzionali, in Cina il contesto è da un lato quello più vicino di un regime marxista-leninista che a un certo punto ha deciso di accogliere il mercato, ma non il pluralismo politico.
Dall’altro, quello di una cultura in cui ha agito in profondità la scuola del legismo. Una corrente filosofica fondata nel III secolo a.C. da Han Fei che, in contrapposizione alle idee confuciane di benevolenza, virtù e rispetto dei riti, predicò il diritto del principe a esercitare un potere assoluto e incontrastato. Fonte unica del diritto, il principe legista non rilascia deleghe a nessuno. Accanto a lui ci sono soltanto esecutori della sua volontà, con mansioni rigorosamente delimitate. Al di sotto sudditi, tenuti solamente ad obbedire.
In realtà anche il confucianesimo, altro polo storico del pensiero politico cinese, è tendenzialmente autoritario. Ma con l’idea che anche il sovrano ha doveri e regole da rispettare e può essere contaminabile da un’idea della democrazia liberale di tipo occidentale.
Se non altro Sun Yat-sen ci provò, e a Taiwan alla fine una ibridazione tra Locke e Confucio sta funzionando. Mentre nella Cina continentale si stanno ibridando legismo, Schmitt e comunismo.
La statualità, insegnava Schmitt, si caratterizza per l’eliminazione dei nemici esterni ed interni allo Stato: i primi da individuati attraverso lo ius belli: i secondi con l’identificazione ed eliminazione di coloro che «disturbano la tranquillità, la sicurezza e l’ordine» dello Stato. Per riuscirci, lo Stato non può essere frenato dalle limitazioni proprie dello Stat liberale di diritto. Se no, non sarebbe in grado di proteggere i propri cittadini dai nemici.
Secondo Chang Che, esattamente questa è la logica che sta dietro la stretta repressiva che è stata imposta su Hong Kong con l’obiettivo ufficiale di proteggere l’isola dalla «infiltrazione di forze straniere».
«Sebbene gli accademici cinesi siano spesso circoscritti in ciò che possono e non possono dire», osserva, «tuttavia gli capita di manifestare disaccordi in pubblico. A volte, si permettono perfino critiche alla leaderhip cinese, per quanto limitate e caute. Stavolta, invece, l’enorme volume di scritti prodotti dagli studiosi cinesi, così come la natura di tali argomenti – coerenti, coordinati e spesso formulati in un gergo giuridico sofisticato – suggerisce che a Pechino ci sia ormai un nuovo livello di coesione sulla portata accettabile del potere dello stato».
Xi Jinping ha ormai di nuovo orientato il centro di gravità ideologico sul Partito Comunista, la limitata tolleranza del dissenso che poteva essersi manifestata è svanita, ed anche ogni tipo di autonomia che poteva essere stata concessa tra Xinjiang, Mongolia Interna e Hong Kong è stata soppressa.
Tutto ciò è giustificato da un nuovo gruppo di ideologi in ascesa, che sono stati ribattezzati «statisti». Appunto, sembra una ridefinizione dei «legisti» alla base degli insegnamenti di Schmitt, e a servizio del partito di Mao. Un loro forum online è Utopia, in cui nel 2012 fu affermato con chiarezza che «la stabilità deve avere il sopravvento su ogni altra cosa».
Secondo Chang Che è un concetto tipicamente schmittiamo, che si spiega in base alla traduzione di Schmitt in cinese fatta all’inizio del millennio dal filosofo Liu Xiaofeng, da cui discese una vera e propria «febbre schmittiana».
Altro grande estimatore di Schmitt è stato Chen Duanhong, docente di Diritto all’Università di Pechino. «La sua dottrina costituzionale è ciò che veneriamo» ha scritto nel 2012 su quello che ha definito come «il teorico più influente», liquidandone l’adesione al nazismo come «una scelta personale». Chang Che cita anche testimonianze di studenti secondo cui i concetti schmittiani sarebbero ormai «linguaggio comune nell’establishment accademico».
Proprio citando «il giurista tedesco Carl Schmitt» nel 2018 Chen Duanhong spiegò la progressiva evaporazione del regime di garanzie concesso a Hong Kong al momento della «retrocessione» da Londra, distinguendo tra norme statuali e norme costituzionali e argomentando che «quando lo Stato è in grave pericolo» i suoi leader hanno il diritto di sospendere le norme costituzionali: «specie le previsioni sui diritti civili».
Ancora più esplicitamente l’idea di usare le teorie di Schmitt come una clava contro Hong Kong è stata difesa in un libro del 2010 di Jiang Shigong: un docente di Diritto all’Università di Pechino, che tra 2004 e 2008 aveva lavorato all’Ufficio di Collegamento tra Pechino e Hong Kong, e che nel 2014 è stato tra gli autori di un Libro Bianco del governo cinese su Hong Kong.
Chang Che cita anche Haig Patapan: un docente di politica alla Griffith University in Australia che ha scritto a sua volta sulla influenza di Schmitt in Cina, e secondo cui lo schimittismo potrebbe diventare ideologia del regime al posto di un marxismo percepito come ormai non più adatto.
Nazionalismo e nemici esterni potrebbero giustificare il monolitismo del partito comunista molto di più che non una nozione di lotta di classe che fa ormai a pugni con la stratificazione accettata dal regime. E William Kirby: docente di studi cinesi ad Harvard e autore di un libro sulla attrazione del modello di modernizzazione tedesco in Cina già ai tempi di Chiang Kai-Shek.
Le vicende della pandemia avrebbero ulteriormente rafforzato gli «statisti». E appunto il saggio si conclude con una citazione di Flora Sapio: «da quando Xi Junping è diventato il leader supremo la filosofia di Carl Schimtt ha trovato ancora più ampia applicazione sia nella teoria del partito che nella vita accademica. Questo cambiamento è significativo: segna il passaggio di Pechino da quello che era stato un governo illiberale – che infrangeva le norme liberali per comodità – a un governo anti-liberale – che ripudia le norme liberali per principio».