«Quando gli dei vogliono punirci esaudiscono le nostre preghiere». Così scriveva Oscar Wilde nella commedia “Il marito ideale”, rappresentata per la prima volta all’Haymarket Theatre nel West End.
Era il 3 gennaio del 1895 e i londinesi si affrettavano a percorre il breve tratto di strada che separa la fermata della Tube a Piccadilly dal teatro reale più blasonato della città. L’Inghilterra era al culmine del potere in ogni parte del mondo. La regina vedova di Alberto di Sassonia Coburgo-Gotha, l’imperatrice Vittoria, la Grande Elefantessa dell’India, indossava la corona dal 1837 e sarebbe rimasta sul trono di Sant’Edoardo per altri sei anni, dando il proprio nome ad un’era che più di ogni altra ha segnato il cammino della civiltà in ogni angolo del globo.
In quella gelida serata londinese, andava in scena la prima della più dissacrante opera teatrale dell’autore maggiormente discusso di quegli anni, che pochi mesi dopo sarebbe stato condannato a due anni di reclusione per una delle colpe più gravi che quell’epoca metteva in cima alla propria morale: l’omosessualità maschile.
Un bell’esempio d’ipocrisia, viste le tante storie di amori clandestini consumati nei collegi di Fettes e di Eton dove da sempre si sono formati gli adolescenti della classe dirigente britannica, a partire da rampolli coronati. Quella sera si confrontarono due epoche e due personalità che sarebbero scomparse a pochi mesi l’una dall’altra chiudendo il XIX secolo.
Vittoria infatti sarebbe morta il 22 gennaio 1901 e Wilde il 30 novembre del 1900 ed a lui quest’articolo è dedicato. La tomba della prima è nel Mausoleo Frogmore nei pressi del Castello di Windsor ed è coperta di gloria; le visite sono limitate. La sepoltura di Oscar Wilde si trova nel cimitero parigino del Père-Lachaise, è meta di un incessante pellegrinaggio e ricoperta da centinaia di impronte di baci lasciate con il rossetto da uomini e da donne di tutto il mondo. A volte i sentimenti scambiano i troni nei cuori delle persone.
La pièce teatrale di quel lontano 3 gennaio del 1895 metteva in scena l’ipocrisia dell’epoca vittoriana, rivelando gli scheletri nell’armadio di un immaginario potentissimo sottosegretario agli affari esteri, Sir Robert Chiltern, considerato da tutti un elegante e raffinato gentleman ed un marito ideale dalla propria moglie. Egli tuttavia nasconde un segreto: all’inizio della propria carriera si è arricchito vendendo ad un politico austriaco un segreto di Stato.
Un’amica di lady Chiltern si trasferisce da Vienna a Londra e, a conoscenza dell’inconfessabile colpa del coniuge tanto stimato, lo ricatta, pretendendone l’appoggio per una speculazione edilizia la cui legge è in discussione alla Camera dei Lord.
La trama si svolge in un susseguirsi di minacce, menzogne e finzioni; si risolverà grazie alla ragnatela di antiche e non sempre commendevoli amicizie che sempre è stata tessuta tra compagni di scuola poi assurti a ruoli di potere, in una rete di complicità che va oltre ogni contrapposizione politica.
Alla fine, la minaccia sarà disinnescata con un contro-ricatto posto abilmente in essere da un altro influente notabile, amico del protagonista e interessato alla sorella del medesimo che poi sposerà.
Lord Chiltern conserverà il potere continuando la propria ascesa politica, si assicurerà per il resto della vita l’amore della moglie ignara e porterà la colpa con sé nella tomba. Lo scandalo sarà stato evitato e l’ipocrisia della morale vittoriana avrà trionfato sulla verità impresentabile dei fatti. Quale migliore regalo avrebbe potuto fare a tutti noi l’infelice poeta irlandese, il primo radicale della storia che abbiamo voluto onorare nel centoventesimo anniversario della morte?
Perché di dono si tratta, allorquando si cerca di togliere dagli occhi dei più il velo che la propaganda vi stende con i mezzi di ieri e di oggi per nascondere il vuoto dietro il potere, e quando si dichiara che il re è nudo mentre in molti ne magnificano le inesistenti vesti regali di cui egli è convinto di essere adornato.
La storia e l’archeologia ci hanno consegnato monumenti di pietra voluti dai potenti per celebrare la propria supposta grandezza e tramandarla ai posteri ignari e sprovveduti.
Spesso, tanto minori erano state le opere del defunto, tanto più grande era il monumento che aveva fatto costruire per sé.
Si pensi all’oscuro funzionario della Roma imperiale addetto all’organizzazione dei banchetti su cui probabilmente faceva la cresta, Caio Sestio Epulone, la cui tomba fu costruita tra il 12 e il 18 avanti Cristo con un abile ricatto contenuto nel testamento dove si disponeva la costruzione del sacrario entro un termine stabilito, pena la perdita dell’eredità.
Doveva essere veramente cospicua se i beneficiari sentirono il bisogno di commissionare l’iscrizione ancora oggi leggibile: Opus absolutum ex testamento diebus CCCXXX, arbitratu (L.) Ponti P. f. Cla (udia tribu) Melae heredis et Pothi l(iberti) che tradotto vuol dire «Quest’opera è stata completata per testamento in 330 giorni per disposizione dell’erede Lucio Ponzio Mela, figlio di Publio, della tribù Claudia, e del liberto Potho».
L’inconsueta costruzione, del tutto fuori posto, si trova a Porta San Paolo, sulla Via Ostiense, ed ai piedi si estende il cimitero acattolico della capitale dove riposano John Keats, Percy B. Shelley, Antonio Gramsci, Emilio Lussu e, da recente, Andrea Camilleri e Gigi Proietti. Pier Paolo Pasolini vi andava spesso a meditare. La piramide Cestia è visibile anche dai balconi dei palazzi del potere ai cui provvisori inquilini potrebbe suggerire qualche riflessione se solo, ogni tanto, distogliessero lo sguardo dal Pantheon a cui aspirano.
Con obelischi, piramidi e archi di trionfo – templi laici di glorie passeggere – veri potenti e condottieri farlocchi hanno cercato sempre di eternare le proprie gesta, consegnando ai posteri il racconto, non sempre veritiero, della propria esistenza.
A qualcuno è andata male perché il monumento non è mai stato eretto e, quando vi avesse provveduto lui già in vita, in molti casi ne sono stato scalpellati via il nome, in quella damnatio memoriae che talvolta mette in pari i conti della Storia. Accadde per Adolf Hitler che della Grande Berlino, capitale del Reich millenario vide solo il plastico che un prono Albert Speer aveva costruito per lui. Era furbo l’architetto e riuscì a cavarsela anche a Norimberga.
Accadde a Benito Mussolini, che non vide mai completata quell’EUR di cui si sentiva, novello Romolo, il fondatore e da cui, se le cose fossero andate diversamente, avrebbe governato, come avvenne per il quasi coetaneo Francisco Franco, forse fino agli anni settanta.
Tuttavia, “l’uomo del secolo”, come ama definirlo con qualche licenza letteraria lo scrittore Antonio Scurati ora in libreria con l’inevitabile sequel, un obelisco personale se lo procurò nel quindicesimo anniversario della marcia su Roma, prendendolo alla città di Axum. Per decenni è stato davanti al palazzo dell’ex Ministero delle Colonie, poi diventato, con somma ironia, sede della FAO, l’organizzazione che avrebbe dovuto eliminare la fame nel mondo.
Nonostante l’immancabile e polemico parere di Vittorio Sgarbi, fu restituito all’Etiopia nel 1997 da Romano Prodi, Walter Veltroni, Massimo D’Alema e Lamberto Dini, durante la breve avventura del primo governo dell’Ulivo.
Oggi la furia iconoclasta del politicamente corretto si abbatte come un vento su ogni forma di memoria e colpisce anche le statue di Cristoforo Colombo, di Jean-Baptiste Colbert, di Winston Churchill, di Rudyard Kipling e persino di Zwarte Piet, l’aiutante di Sinterklaas nella tradizione natalizia olandese, e del fondatore dei boy scout Robert Baden Powell.
Talvolta il giusto paga anche per il peccatore, ma “non dura minga” come ricordava il jingle pubblicitario della China Martini, canticchiato da Ernesto Calindri e Franco Volpi nel mitico Carosello del 1963.
Un obelisco fu preteso da Luigi Filippo, anche se formalmente donato dal Kedivè d’Egitto nel 1829 ed inaugurato dal nipote legittimista di Luigi Capeto nel 1836. Era uno dei due propilei che ornavano l’ingresso del tempio di Luxor: doveva pacificare la nazione, attenuare il ricordo della ghigliottina in Place de la Concorde e far dimenticare gli eccessi della Rivoluzione del 1789. La rivolta di Parigi del 1848 dimostrò che non era facile ammansire i francesi.
Il secondo obelisco, parimenti promesso nel medesimo accordo, non fu mai consegnato e negli anni ’90 fu “restituito” ufficialmente al popolo egiziano, senza mai essersi mosso dalla propria sede.
Il socialista Francois Mitterrand compì il beau gest che gli valse indubbi vantaggi nella politica terzomondista che ne caratterizzò la presidenza. In realtà, non era il tipo a cui potesse bastare una coppia spaiata e preferì farsi costruire dall’architetto Ieoh Ming Pei la propria piramide personale dai tanti significati esoterici, nel cortile del Louvre.
Da vero sovrano repubblicano la inaugurò nel 1988 e fu aperta al pubblico il primo aprile dell’anno successivo nella ricorrenza di due secoli dal primo moto della Rivoluzione ma anche dell’insediamento dei deputati della Camera dei Rappresentanti al Congresso degli Stati Uniti. Ci sono inaugurazioni che riannodano fili antichi e poco noti mentre parlano linguaggi perduti.
Di piramidi e obelischi è ornato il dio del mondo contemporaneo, quell’U.S. One Dollar, vero capolavoro d’incisione e sintesi di un’evocazione simbolica che rinvia alle origini dello Stato Federale ed agli ideali che lo animarono.
Ne stabilì il formato George Washington ma fu Franklin Delano Roosevelt a volervi disegnato l’occhio che tutto vede. Di quella simbologia si occupò anche Carl Gustav Jung quando coniò il termine “inconscio collettivo” contrapposto a quello “individuale” fissato dal suo maestro, Sigmund Freud, a fondamento della psicoanalisi.
Curiosamente in nessuno dei tagli del dollaro in circolazione appare una figura femminile. Non escluderei al riguardo un intervento della neo vice presidente Kamala Harris che potrebbe attingere ad una sterminata galleria di famose donne americane.
Un gesto politicamente corretto, stavolta concreto e dovuto nei confronti di una componente essenziale e storicamente determinante della vita americana, come già ebbe a notare Alexis de Tocqueville nel saggio “La democrazia in America” del 1835, un tema poi approfondito sul piano sociale dalla scrittrice inglese Harriet Martineau in “Society in America” del 1838.
Per quanto movimentata oggi si presenti la famiglia americana, restano attuali le descrizioni note ed avvincenti che due grandi autori ebrei quali Woody Allen e Philip Roth ne hanno fatto nel cinema e nella letteratura del XX secolo. Vedremo.
Mentre chi scrive cerca di individuare antiche e moderne forme di autocelebrazione iconica del potere personale, nell’italietta sempre più confusa e disorientata si punta a costruire una nuova piramide.
Non è fatta da blocchi di marmo o di granito, ma è formata da trecento nuovi membri che il Faraone si appresta a nominare sua sponte per gestire quella piena del Nilo che l’Unione Europea sta per riversare sulle italiche plaghe, peraltro mai pienamente fertili ed ubertose in passato, oggi desertificate dalla pandemia.
Visti i precedenti recenti, il timore che tale piramide di cui, in perfetta letizia e francescana solitudine il Presidente del Consiglio rappresenterebbe la cuspide dorata, è ragionevole sospettare che essa venga su, piuttosto, come la Torre di Babele, monumento incompiuto dalla mai sopita hybris che gli esseri umani nutrono, pretendendo di raggiungere la divinità e di colloquiarvi da pari a pari.
Un parlamentino di yes-men dalla incerta competenza che dovrebbe sovrapporsi, in un clima di Dpcm reiterati, al Parlamento eletto, pur incautamente, dal popolo sovrano. Forse travolto dalle pur timide celebrazioni del centenario dantesco, l’avvocato del popolo è rimasto colpito dalla raffigurazione del Purgatorio, tanto simile alla Torre dipinta successivamente da Peter Bruegel il Vecchio, che il poeta presenta in forma di montagna le cui radici sono nell’Inferno, piramide rovesciata, ma la cui sommità è la porta del Paradiso, piramide di luce. «E canterò di quel secondo regno / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno».
Accompagnato da un Virgilio indebolito dalla lunga discesa infernale e consapevole che mai gli sarà permesso di riveder le stelle, il novello vate d’Italia sta predisponendo le cornici rocciose lungo le quali distribuire le anime che giudica siano da purificare durante la lunga ascesa.
Avendo compiuto studi umanistici e religiosi, non gli sfugge la classificazione tomistica dei sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria ed è pronto a togliersi, come il Sommo Poeta peraltro, qualche sassolino dalle eleganti scarpe inglesi.
Il fulcro anagogico del Purgatorio, cantica meno amata rispetto al più avvincente Inferno e al sublime quanto ostico Paradiso, è l’amore richiesto e non donato o corrisposto in modo irregolare.
I purganti sono disposti in sequenze crescenti: dai più colpevoli, prossimi all’Inferno, ai meno rei che intravedono dalla cima della montagna, piramide di espiazione, la luce del Paradiso.
Per assumere il fisico del ruolo, il nostro pellegrino vorrebbe prendere a modello l’incorruttibile Catone l’Uticense, custode del luogo, ma quando viene a sapere che quegli si suicidò per non essere costretto a compiacere il potere di Cesare e ad assistere al declino dei valori repubblicani, ne prende subito le distanze e, per la scaramanzia che accompagna spesso ogni bigotto, se ne allontana, iniziando il percorso di ascesa.
Lasciati nell’anti purgatorio gli scomunicati, i negligenti ed i principi che tanto lo hanno snobbato, egli ha già stabilito le pene purganti: nella prima cornice, la più profonda, collocherà i superbi. Ne ha conosciuti tanti che ne hanno umiliato le velleità, consapevoli dei limiti che essi coglievano dietro la sua untuosa profferta di sequela.
Ora stanno lì con sulle spalle i pesi delle loro splendide carriere, i loro curricula veri, brillanti e certificati, gli elenchi di pubblicazioni che danno le vertigini, gli ermellini che tanto lo intimorivano e quel ventaglio di competenze che gli veniva spesso sbattuto in faccia, inesorabilmente chiuso.
Dovranno penare a lungo e guardare lui mentre sceglie gli scartati ed i mediocri, tanto docili ed ubbidienti, attenti a non mostrare, ove ne avessero, tenui barlumi di intelligenza che potrebbero far presagire un futura ombra al suo splendore.
Gli invidiosi: quante ne hanno dette su di lui, mentre si affannava a far dimenticare il proprio passato politico e ne paragonavano l’ascesa sociale a quella dell’Uriah Heep raccontato dal Dickens che tanto abbiamo amato. Adesso avranno le labbra cucite con il fil di ferro e dovranno ammirare muti la sua facondia e la sua eleganza.
Gli iracondi: sono colpevoli di troppe passioni e molte volte lo hanno messo in grave difficoltà con la rozza aggressività dei propri argomenti e il tentativo di coinvolgerlo in vicende da cui si sarebbe volentieri astenuto, preferendo il passo felpato che adesso, ne è sicuro, lo porterà lontano. Se li lascia alle spalle mentre vagano nel fumo di rabbiose imprecazioni emesso dai volti trinariciuti.
Gli accidiosi stanno un po’ più su degli iracondi, la loro colpa è l’inerzia, unita all’ozio e alla malinconia. Sono i tiepidi spiriti di coloro che non lo amano e non lo odiano, ma che lo giudicano. Con suo sommo dispiacere, si limitano a non considerarne le virtù. Essi non sanno quanto gli sia costata l’ascesa che sta compiendo verso il Paradiso e mostrano di ignorarne i motti arguti, le parafrasi incespicanti e le belle quanto affettate maniere. Piuttosto che corrergli intorno, lo guardano dall’alto in basso. Non lo ameranno mai abbastanza e questo per lui è insopportabile. Sono condannati a correre a perdifiato, esplicitando quell’ammirazione che gli hanno sempre negato.
Gli avari e i prodighi sono il suo problema più grave. Gli uni vorrebbero tenere per se stessi i propri beni e tentano perfino di pretendere una politica fiscale più equa e meno vessatoria, li chiamano industriali e piccoli imprenditori e la loro congrega lo perseguita dandogli del populista.
Sono guidati dallo spirito di Mario Monti ma soprattutto dall’ombra di Mario Draghi che incombe su di lui come quella di Banquo su Macbeth. I prodighi, invece, avevano in mente di usarlo come volto presentabile ma sono completamente folli. Fosse per loro, trasformerebbero il Paese in un’orgia di sussidi, ristori, pensioni misere ma facili, in un incubo confuso di antiche utopie centrifugate dal luciferino inventore del loro universo di stelle artificiali.
Non avendo studiato la Storia, essi le evocano, senza conoscerne le conseguenze o forse auspicandole per lasciare l’odiata Unione Europea, come consigliava loro Donald Trump. Tuttavia il loro peso è determinante e ancora gli servono ma presto potrà liberarsene sostituendoli con altri volenterosi o proponendo loro una muta definitiva in cambio della salvezza. Intanto, avari e prodighi vanno tenuti legati da vaghe promesse per non fare danno al suo progetto di lievitazione verso l’alto.
I golosi sono tanti, un intero popolo che pecca e fa peccare gli altri attraverso la lubrìca proposta di dolciumi da bar, pasti al ristorante, goderecce riunioni di famiglia in cui si scannano vitelli e maiali, ricevute fiscali non emesse ma anche l’incontenibile appetito di poltrone ed incarichi. Li attendono giorni di magra ed ogni tanto egli allungherà loro qualche boccone prima che si ribellino e cerchino di divorarlo. Qualche articolo fa, nell’Inferno ha incontrato Ciacco ed ancora gli risuonano nella mente i grugniti dei porci a cui il poveretto è associato.
Restino dunque anche costoro a purgare le proprie budella, soffrendo la fame e la sete e coltivino da cenobiti lo spirito natalizio a cui con le prediche del fine settimana egli, novello Padre Mariano, non cesserà mai di cercare di convertirli per salvarli. Da essi si stacca, ad un certo punto il poeta latino Stazio, che lo affiancherà insieme a Virgilio nel resto del cammino tra i purganti.
Il vate non l’allontana perché, incredibile dictu audituque, ha saputo che avrebbe tessuto le lodi del suo governo, fino a poco prima avversato, definendone uno dei membri «giovane, corretto sempre rispettoso con un vecchio signore» e, abbracciandolo virtualmente, ha poi continuato «dopo la lettura del tuo programma non posso che dire: finalmente. Ben atterrato da Marte. Lo dico senza ironia». Misteri dell’aldilà, miserie dell’aldiquà.
I lussuriosi si avvicinano un po’ di più alla luce. In fondo hanno amato, anche se con eccessi talvolta imbarazzanti per uno che è cresciuto a Villa Nazareth e che con – alcuni – porporati si dà del tu. D’altronde, «chi non ha peccato, scagli la prima pietra».
Una ricetta fusion che può tornare utile a dargli quella patina di politicamente corretto che la Sinistra tanto ama e che potrebbe accattivargli qualche novella simpatia, magari mediata dal suo eclettico portavoce. Altrimenti continuino pure a bruciare nel fuoco delle passioni che li hanno travolti, sino all’espiazione definitiva.
Non è dato ancora di sapere dove metterà Emanuele Severino e Claudio Magris. L’ascesa è conclusa, già si intravedono le porte del Paradiso, la torre di Babele è stata quasi completata, la montagna incantata dal desiderio di santità è stata scalata e, finora, il dio benevolo che lo protegge dall’alto ha mantenuto la mano sul suo capo mentre un candido San Bernardo che tanto ha amato in vita, sembra attenderlo alla fine dell’ultima cantica per introdurlo alla contemplazione divina.
L’emozione è troppo forte e sente il bisogno di rivolgersi, lui cristiano sino alle midolla, al dio Apollo perché lo aiuti nell’ultima narrazione e nel conseguimento dell’alloro: «O buon Apollo, a l’ultimo lavoro / fammi del tuo valor si fatto vaso / come dimandi a dar l’amato alloro. […] Trasumanar significar per verba / non si porìa, però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba. […] Non dei più ammirar, se bene stimo, / lo tuo salir, se non come d’un rivo / se d’alto monte scende giuso ad imo».
Le meta è vicina, divinità pagane, eroi mitologici e beati cristiani lo attendono per fargli ala. Resta ancora un piccolo tratto da percorrere in salita e lui ha le gambe troppo corte.
Ha bisogno di issarsi sopra un’ultima piccola piramide e non esita a concepirne una di trecento gradini, robetta, per uno che è stato all’Inferno e ne è risalito incolume.
Da lassù potrà distribuire latte e miele come in una terra promessa di cui egli solo sarà il prediletto. Ma, attenzione, il diavolo che tanto ha irriso si nasconde nei dettagli e un colpo della coda scagliosa di drago potrebbe ancora raggiungerlo e precipitarlo giù nel labirinto dell’oscura mediocrità da cui emerse un tempo.
Se ciò dovesse accadere, nessuna piramide sarà costruita in suo onore, nessun arco di trionfo riporterà il racconto delle sue gesta, nessun obelisco svetterà nel cielo di quest’Italia che tanto si fa illudere dagli uomini della Provvidenza e che non impara mai la lezione.
Al loro posto qualcuno erigerà una Colonna Infame e se, tuttavia, su di essi rimarrà ancora qualche traccia del suo passaggio, penseranno gli scalpellini a fare tabula rasa. Egli verrà presto dimenticato e il suo grande imperdonabile peccato sarà stato il non aver dato ascolto ad un altro saggio monito scritto in quella medesima Inghilterra da cui siamo partiti, ad opera di un anonimo polemista politico del XVII secolo e rivolto da sempre a chi detiene il potere: «Quem vult Iupter perdere, dementat prius». La traduzione non occorre, in fondo ha studiato dai preti.