Come dice la formula sui social, pare che la sinistra debba ripartire dai Cinquestelle e dal governo Conte. Almeno a stare a sentire i grandi vecchi (anche quelli anagraficamente non tali) che Massimo D’Alema ha riunito intorno a un tavolo virtuale per parlare nientemeno che del “Cantiere della sinistra”, tema del nuovo numero della rivista di Italianieuropei. Dibattitone con svolazzi di livello e altrettante chiacchiere non da bar ma diciamo a cena tra amici, i capi di un tempo (Massimo D’Alema, Giuliano Amato), i leader attuali (Nicola Zingaretti, Matteo Renzi, Dario Franceschini, Roberto Speranza), uno a cavallo di due ere (Goffredo Bettini), due intellettuali di diversa sinistra (Ida Dominijanni, Nadia Urbinati), una giovane promessa (Elly Schlein), una mescolanza potenzialmente interessante di biografie, culture, tic: se non fosse che alla fine di questi dibattiti l’unica cosa chiara che viene fuori è che bisogna fare un altro dibattito, nel che sta uno dei drammi della sinistra italiana.
Dal punto di vista dell’attualità politica si è già detto e la si può chiudere qui: l’accordo con il M5s è stato non solo «giusto» (D’Alema) ma è addirittura «inesorabile» (Franceschini) ed è il «perimetro» attorno al quale lavorare (Speranza). Addirittura Franceschini, forse il più grande fan deI Cinquestelle, dice che da alleanza contro la destra deve diventare «qualcosa di più», chissà se entrerà nel centrosinistra, come minimo starà sulla soglia, altrimenti non si vince.
C’è un Zingaretti che non trattiene il recente fastidio per Giuseppe Conte, l’ex punto di riferimento dei progressisti, c’è Renzi seccato che sul Mes ci si stia calando le braghe. Ma resta il fatto che per mettere fuori gioco il sovranismo della destra è servito il patto con «il populismo gentile» dei grillini (quello nato a botte di vaffanculo), ha spiegato D’Alema. Il quale però stavolta, forse per inconsapevolmente ovviare al volare basso sull’attualità, ha provato a guardare oltre. Lo ha fatto lui, lo hanno fatto gli altri. Ma qui casca l’asino.
Se Speranza (e anche Franceschini) ha fornito una chiave interessante – la pandemia ha creato una situazione nuova nella quale si indeboliscono le ragioni della destra e «il vento cambia» a favore delle ricette della sinistra; se insomma le vecchie bandiere del welfare, della difesa del pubblico, dell’uguaglianza, dell’europeismo possono tornare a sventolare; ebbene, non è affatto chiaro come politicamente ciò possa avvenire. Con quale infrastruttura politica. Con quale proposta di governo. Con quali leader.
A tre decenni dalla fine del comunismo e della Prima Repubblica la sinistra ha un grande avvenire dietro le spalle. Perché davanti ha una terra incognita nella quale il tentativo di ricostruire «il senso e le forme» di una ritrovata autonomia della sinistra (Bettini) si scontra con una evidente povertà di conoscenze e con una totale inadeguatezza degli strumenti politici a disposizione: le nuove frontiere della sfida – quale lavoro, quali istituzioni, quale formazione, clima, tecnologia, convivenza – appaiono fuori dal vocabolario concettuale dei vecchi capi.
Infatti ne hanno accennato, a loro modo, Renzi e Schlein, come a rendere esplicito un sentire diverso e più nuovo. Schlein, attenta alle contraddizioni del tempo nuovo e ai movimenti che sottostanno loro, in qualche modo e con qualche forzatura si è riconnessa alla lettura anticapitalista di Ida Dominijanni, firma storica del Manifesto e attenta lettrice dei movimenti della società, e questo per dire che sarebbe sbagliato contrapporre vecchi e giovani. Ci sono dei fili. Più robusti di quanto si pensi. Prendiamo Matteo Renzi.
Il fatto che Renzi sia stato invitato a questo consesso può suggerire che il tempo in cui era considerato un intruso nella storia della sinistra forse è alle spalle, pur con tutte le intatte asperità della polemica politica quotidiana, facendone non un interlocutore ma un soggetto di quel qualcosa di nuovo cui tutti anelano ma che nessuno sa specificare.
Anche Renzi da parte sua ha cambiato qualcosa del suo apparato concettuale: se prima escludeva il clivage destra-sinistra (si ricordi la sua prefazione al classico di Norberto Bobbio), oggi al contrario la ripropone, probabilmente in conseguenza dell’indurimento sovranista e autoritario della destra al tempo di Trump.
Solo che a quella dicotomia, il leader di Italia viva aggiunge quella interna alla sinistra – l’ormai famosa polemica sul fatto che Joe Biden ha vinto al centro – che comunque la si pensi è un tema reale perché obbliga la sinistra a trovare il modo di far coesistere diverse sensibilità per sconfiggere una destra che rimane forte e forse maggioritaria.
«Inseguendo il 51, ci siamo persi il 20 per cento», dice D’Alema attaccando ancora una volta l’esperienza del Pd renziano e in controluce del Pd veltroniano, citando non a caso il partito leggero e «la lotteria delle primarie», un modello «che non funziona». E anche se non ha mai funzionato neppure nient’altro alla sinistra del Pd, pure «ci siamo ancora, la sinistra ha voce».
Ma come darle gambe, non è chiaro. Tanti partiti non va bene. Bettini allude alla «fondazione di una forza più ampia e unitaria»: un grande Pd? Forse – dice D’Alema che pure diede vita alla scissione di Articolo 1 – si può pensare a qualcosa che vada oltre, ma egli non parla apertamente di un partito unico mentre Schlein parla di «rete» fra i vari soggetti. Zingaretti è come al solito fiducioso ma – avverte – «non c’è molto tempo». In questo gigantesco boh sulla prospettiva concreta, si è capito che la sinistra con un grande avvenire dietro le spalle dovrà fare ancora mille altri dibattiti per cercare per l’ennesima volta la sua strada.