Mentre l’Italia continua a scalare la classifica mondiale dei paesi con più morti per Covid (ieri 814), essendo al tempo stesso il paese che ha dovuto sopportare le restrizioni più dure e di conseguenza i maggiori costi economici e sociali, il capo del governo, Giuseppe Conte, prosegue soddisfatto la sua navigazione, con una tranquillità che sembra sfidare la logica dei numeri, la forza di gravità e ogni legge della politica. Da qualunque parte la si guardi, infatti, è difficile capire su cosa poggi la baldanza del presidente del Consiglio, che anche nella conferenza stampa di giovedì, nel giorno cioè in cui l’Italia contava la cifra record di 993 morti in 24 ore, si mostrava più che soddisfatto tanto dei risultati quanto della squadra di governo.
A sciogliere l’enigma hanno pensato le polemiche sulle restrizioni natalizie e la mobilità tra i comuni, l’orario dei centri commerciali e quello dei ristoranti, sollevate ancora una volta dalle Regioni e dall’opposizione di centrodestra, ma anche da Italia Viva e da un pezzo consistente del Partito democratico.
In altre parole, abbiamo da un lato un governo che non ha evidentemente la minima idea di come organizzare alcunché, e da marzo a oggi di fatto non ha organizzato altro che conferenze stampa e immani sfilate di consulenti, commissari, supercommissari e task force, immaginando forse di poter sterminare il virus con una raffica di nomine e una gragnuola di chiacchiere senza senso. E dall’altro lato, in compenso, abbiamo avversari interni ed esterni pronti ad andare dietro a qualunque protesta, facendo così apparire anche le più deboli e tardive decisioni dell’esecutivo come l’unico sprazzo di ragionevolezza in un mare di strumentalizzazioni, capricci e manovre di piccolissimo cabotaggio.
Sul fatto che il governo non abbia la benché minima idea di come riorganizzare alcunché, non dovrebbe essere necessario dilungarsi in molte spiegazioni, dopo i bei risultati raggiunti con l’app Immuni e l’intero sistema del tracciamento, i banchi a rotelle, le scuole che ad agosto tutti facevano a gara a giurare che mai e poi mai avremmo richiuso e che oggi sappiamo saranno riaperte il 7 gennaio, per richiudere – scommettiamo? – un paio di settimane dopo o giù di lì. Non ci credete?
E allora facciamo un passo indietro. Tre giorni fa, mercoledì 2 dicembre, il coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo, convocato in audizione alla commissione Cultura della Camera per riferire sul tema della riapertura delle scuole, a domanda sui dati raccolti dal ministero dell’Istruzione relativi ai contagi negli istituti e pubblicati da Wired dopo un accesso agli atti, ha così risposto: «Ho visto l’articolo, io e i miei colleghi ci proponiamo di approfondire la lettura, a noi non era noto questo tipo di indagine».
Dunque, nella migliore delle ipotesi, il Comitato tecnico-scientifico non sa cosa fa il ministero dell’Istruzione (e viceversa, evidentemente). Ognuno raccoglie e si gingilla con i dati che preferisce. Nel frattempo, si continua a parlare di come e quando riorganizzare i trasporti e scaglionare gli ingressi nelle scuole, e se magari tenerle aperte anche il sabato e la domenica, secondo l’ultima idea (del ministro dei Trasporti, ovviamente) buttata lì in proposito una settimana fa, come se fossimo ancora a marzo. Ma non siamo a marzo. Da marzo, quando abbiamo chiuso le scuole per la prima volta, sono passati nove mesi, il tempo necessario a mettere al mondo un bambino, e la discussione su come organizzarne la riapertura in tempo di pandemia è esattamente al punto in cui era nove mesi fa. Se gran parte degli studenti sono tornati alla didattica a distanza dopo poche settimane dalla ripresa, già dalla fine di ottobre – quando le condizioni climatiche, la diffusione dei contagi e dell’influenza stagionale erano assai più miti – quanto credete che resisteranno a gennaio?
Ricapitolando, è ormai evidente che il governo non ha idea di come riorganizzare l’apertura delle scuole e i relativi trasporti locali, figurarsi il ripensamento dell’intera economia nazionale, tema su cui continua a collezionare task force come fossero francobolli, dalle indimenticate slide di Vittorio Colao alle indimenticabili sfilate degli Stati Generali, fino all’ultima incredibile trovata della carica dei trecento addetti al Recovery Plan. Eppure va avanti che è un piacere, per la semplice ragione che la regressione populista della democrazia italiana è ormai inarrestabile, un dibattito razionale è praticamente impossibile e l’ultima cosa che gli elettori vogliono sentirsi dire sotto Natale è che con il virus e le relative restrizioni dovremo fare i conti ancora a lungo, e dunque dovremmo organizzarci. E così il governo da un lato interviene tardivamente e praticamente a casaccio, dall’altro passa persino per un esempio di rigore e responsabilità, perché l’unica cosa di cui i suoi avversari sono capaci di rimproverarlo è di essere troppo severo e di mettere troppe restrizioni, rovinando loro la ricreazione.