Lo smart working è qui per rimanere. Quella che stiamo vivendo non sarà solo una parentesi che prima o poi si chiuderà, tornando al lavoro come lo conoscevamo prima. Ma cambierà l’orizzonte di aziende e lavoratori.
Come affrontare al meglio questo cambiamento nelle imprese? E quali sono le ricette da mettere in campo per far funzionare la nuova organizzazione? Ne hanno discusso in un webinar, all’interno del ciclo di eventi “Sparks of Knowledge” di Badenoch + Clark, Roberto Poli, sociologo dell’Università di Trento; Marco Bentivogli, ex segretario della Fim Cisl e autore di “In dipendenti. Guida allo smart working”; Diego di Barletta, head of executive di Badenoch+Clark; Marcella Cerchioni, country hr head di Sony; e Sara Callegari, hr director di Engie Italia.
L’incontro, moderato dal giornalista Francesco Cancellato, ha mostrato come in questo momento convivano due spinte opposte. Da un lato imprenditori e lavoratori che ancora non sono riusciti a fare il salto di mentalità verso la “nuova normalità” del lavoro, come spiega Diego di Barletta. Dall’altro manager che vedono nello smart working un «nuovo mindset», un volano per il cambiamento verso una modalità organizzativa diversa e la possibilità di attrarre talenti. L’auspicio ora è che «lo smart working diventi la nuova normalità», dice Di Barletta.
Per muovere i primi passi in questo new normal, dunque, la prima domanda da farsi – ha spiegato Roberto Poli – è «se siamo in un momento di frattura o di metamorfosi». La differenza è che «le fratture prima o poi si ricompongono, le metamorfosi invece alludono alla nascita di qualcosa di diverso rispetto a quello che c’era prima». In questo momento «c’è chi dice che tanto si tornerà come prima e c’è chi invece dice che si sta profilando una situazione completamente diversa».
Ma l’orizzonte e il contesto in cui ci muoviamo non consentono di tornare al passato. Utilizzando la metafora bellica delle difficoltà dell’esercito americano contro Al Qaeda, Poli spiega che oggi come allora «il contesto operativo ha delle caratteristiche diverse da quelle che aveva solo pochi anni fa», per cui si rende necessario smantellare la rigida gerarchia che conosciamo per acquisire competenze fluide, differenti, che permettano di affrontare il nuovo mondo.
A differenza di altri momenti storici, però, quelli che viviamo sono caratterizzati da cambiamenti sempre più veloci, che generano incertezza in chi deve prendere decisioni e ripensare le strutture organizzative.
«Il Covid ha accelerato cambiamenti che già erano previsti», spiega Bentivogli. «Ha “scongelato” lo spazio, ovvero il luogo di lavoro, e i tempi di lavoro, ovvero gli orari». E «molte persone che consideravano lo smart working qualcosa per aziende illuminate hanno dovuto fare una sperimentazione forzata. Molte persone che consideravano immutabili le organizzazioni invece hanno dovuto rivederle». E chi ha sperimentato «si è accorto che queste cose funzionano».
La quota di lavoratori che può essere remotizzata è sempre più crescente, spiega l’ex leader sindacale. Con una precisazione: il lavoro intelligente e agile non è il telelavoro che abbiamo sperimentato forzatamente durante il lockdown, ma una nuova organizzazione che implica uno scambio tra imprese e lavoratori basato sulla fiducia, la responsabilità e l’autonomia.
Le testimonianze che arrivano dalle imprese raccontano proprio la necessità di dover fare un cambiamento nelle organizzazioni che è prima di tutto culturale. Come spiega Marcella Cerchioni. Sony, racconta, «vive un curioso paradosso: tecnologicamente parlando noi eravamo già pronti, anche il nostro way of working era basato sulla assegnazione degli obiettivi. Il paradosso però nasce dal modello culturale di riferimento: lavorare nello stesso luogo, in una gestione controllata, era considerato ancora un elemento determinante per l’efficienza aziendale». Ora, dice, «è proprio un modello gestionale che deve cambiare: ci stiamo lavorando. Ma non dobbiamo creare una working from home policy, bensì una smart working policy». Facendo prima di tutto «crescere le competenze manageriali di chi gestisce le persone quotidianamente» e «pensando a ciò che c’è oggi e non a ciò che c’era prima».
Lo racconta bene anche Sara Callegari di Engie. «Adesso l’importante è non tornare indietro», dice. Davanti a uno scenario ancora non delineato, con un orizzonte ancora tutto da costruire «il rischio è di tornare indietro. Il vecchio sembra certo, il nuovo ci porta invece fuori dalla nostra area di comfort». Quello che bisogna fare, ribadisce, è «capitalizzare quello che abbiamo imparato per creare un valore diffuso in azienda». Un processo che si può attuare solo coinvolgendo sia i manager sia i lavoratori: «Tutti devono assumersi la responsabilità, c’è sicuramente un lavoro da fare da una parte e dall’altra» e «l’hr deve facilitare questi processi».
Ma quali competenze serviranno ai nuovi manager e lavoratori agili? «Ci troviamo nella situazione di acquisire le competenze per gestire ciò che non ci aspettiamo», dice Poli. Il segreto è cominciare a «ragionare sulle nostre debolezze: la sorpresa quando arriverà colpirà laddove abbiamo un elemento di fragilità». L’imperativo, allora, è «sviluppare capacità organizzative e culturali che ci aiutino a gestire le sorprese».
Come? «Serve avere un progetto e un’idea di futuro, senza vivere giorno per giorno. Perché vuol dire non avere nessuna idea di dove andare e in un mondo che cambia velocemente è pericoloso», ribadisce il sociologo. Bisogna «aprire un discorso di futuro. Avere il coraggio di guardare a 10-20-30 anni, capire cosa è in maturazione e come prepararsi».
E in questo futuro anche la dicotomia tra lavoro dipendente e autonomo sarà messa in crisi. «Il lavoro che sta crescendo sempre di più è un lavoro indipendente», dice Bentivogli. «Serve una terza via nuova che sappia normare e tutelare un lavoro che è un lavoro del tutto nuovo. Oggi bisogna ricostruire i sistemi di inquadramento, servono contratti ibridi, ma con un pezzo di tutela collettiva per tutti».