Inchiesta sul campoIo, il Blackberry e il cashback di Stato che non rimborsa la spesa on line

Dopo una serie di spid, firme digitali e carte d’identità elettroniche arriva l’amara constatazione che per rivitalizzare gli esercenti nazionali il governo ha avuto la grottesca pensata di escludere gli acquisti in rete

Archivio Storico Lapresse

C’è stato un tempo in cui anch’io, come voi, conducevo una vita di silenziosa disperazione.

Vent’anni fa di lavoro parlavo alla radio, il che significava che ogni giorno, di qualunque umore fossi, perfino se pioveva, io dovevo lavarmi, vestirmi, andare in uno studio radiofonico. Quindici anni fa prendevo mezza dozzina di voli intercontinentali al mese. Dieci anni fa uscivo quasi tutte le sere.

C’è stato un tempo in cui avrebbe avuto senso che mi facessi il vaccino antinfluenzale, perché c’è stato un tempo in cui facevo il sacrificio di uscire di casa. Poi sono riuscita a smettere, e da allora ogni anno c’è qualcuno che mi dice ma come, non ti fai il vaccino antinfluenzale, ed è qualcuno che non mi conosce, se mi conoscesse saprebbe che la risposta è ma dove dovrei prendermela l’influenza, me la lasciano sul pianerottolo assieme alla spesa, e invece non mi conosce e pensa sarà una picchiatella di quelle contrarie ai vaccini.

Sarebbe giusto spiegar loro che non mi prendo il disturbo d’uscire di casa, figuriamoci quello d’essere contraria a qualcosa, ma per farlo dovrei prendermi il disturbo di mettermi a discutere.

Tutta questa lunga premessa per dire: no, io Immuni non l’ho scaricata. Non ci ho neanche provato, dato che non esco di casa e quindi quando diamine dovrei essere stata in contatto con un positivo, e non avendoci mai provato non avevo mai avuto modo di verificare un sospetto: che sul mio telefono Immuni non giri (sì, ho un Blackberry; no, non apriremo un dibattito in merito).

Ora voi penserete che io sia come quegli scrocconi che vengono irrisi su Twitter: una che dice che Immuni le invade la privacy, ma in cambio di 150 euro è disposta a farsi invadere pure la Normandia che ha nelle mutande.

Ma in realtà ho provato a scaricare Io (ma veramente si chiama Io? Ma chi l’ha pensato? Carmelo Bene?) solo per urgenza narrativa. Volevo raccontarvi di come ero riuscita a farmi rimborsare il dieci per cento d’un cappuccino.

Non ci sono riuscita, ovviamente. L’identificazione tramite carta d’identità elettronica (che mi sentivo modernissima ad avere) è impossibile, perché per farla il telefono deve leggere i codici, i disegnetti, i mostriciattoli, quelle cose che nei ristoranti hanno sostituito i menu e infatti io ho passato mesi a dire ai camerieri «Faccia lei», giacché il mio telefono ovviamente non legge nulla.

In alternativa, Io (io è un altro, diceva quello che la sapeva lunghissima) ti dice che puoi identificarti con lo spid.

Lo spid è come Guerre Stellari: anni che ne sento parlare, ma non m’è mai parso abbastanza interessante da approfondire. Nei gruppi Facebook dedicati al reddito di cittadinanza (la mia finestra sul paese reale), lo spid è la parola degli introdotti. Arriva il derelitto ignaro che chiede come farsi mantenere dallo Stato, e subito qualcuno risponde: devi farti lo spid.

Spid, apprendo nel corso della mia inchiesta tosta, sta per Sistema Pubblico d’Identità Digitale, immagino sia il corrispondente del social security number americano, che ci siamo decisi a inventarci dopo decenni passati a chiedere alla gente d’identificarsi tramite codice fiscale, codice fiscale che chiunque sappia la tua data di nascita e abbia Google può ricavare – praticamente un invito alla frode.

Meglio tardi che mai, ma io ancora più ritardataria di loro lo spid non l’ho mai fatto. Mi viene fornito un elenco dei «gestori di identità abilitati», e corro a vedere. Ovviamente quelli, prima di certificare che tu sei tu, devono accertare che tu sia tu. Tutti hanno varie opzioni identificative: «con firma digitale» (se solo sapessi cos’è); «di persona» (non uscivo prima, figurati se esco per andare a fare lo spid in piena pandemia); «via webcam (a pagamento)». Cioè ti ricevono gratis in un ufficio ma per accendere la webcam vogliono dei soldi?

Mi rifiuto di investire dei soldi in questa inchiesta sul campo. Scelgo le poste, gli unici che scrivano in rosso che, con la loro app, l’identificazione è gratuita. È proprio vero che il meretricio d’ognuna ha un prezzo: io, per centocinquanta potenziali euro e con la copertura dell’inchiesta sul campo, sono diventata una che scarica le app.

E qui inizio a vedere il programma di filosofia della quinta liceo, nel senso dell’eterno ritorno. La app delle poste mi identificherebbe dal documento, se solo – bravi, avete indovinato: messaggio di errore, «il tuo dispositivo non è abilitato alla lettura NFC» (pare che stia per «near-field communication», una roba di buon vicinato che il mio telefono, somigliando alla sua proprietaria, rifiuta).

Posso andare a farmi identificare in un ufficio postale (certo, come no); se fossi titolare d’un conto alle poste e avessi il numero di cellulare certificato, mi manderebbero un sms; se avessi una carta delle poste invece che un banale bancomat, potrei farlo allo sportello automatico. E invece niente.

Incredibilmente, non serve a niente neanche la carta SpesAmica del Carrefour, quella su cui c’è scritto chiaramente «payback», che sarà cugino del cashback, avranno fatto le stesse scuole d’inglese per ripetenti.

Mentre piango la mia incapacità di farmi dare massimo centocinquanta euro pagando con la carta cinquanta volte in sei mesi, mi casca l’occhio sul resto del regolamento di questa simpatica lotteria organizzata dal governo, e su una frasetta che mi sarei dovuta aspettare: «Non concorrono gli acquisti on line».

Nei gruppi riguardanti il reddito di cittadinanza, ci si divide tra chi vede come una grave vessazione il non poter comprare su internet con la carta foraggiata dallo stato, e chi dice che è giusto che lo stato si tuteli pretendendo che i soldi vengano reimmessi nell’economia italiana. Il ragionamento intorno al cashback è probabilmente lo stesso.

Solo che il ragionamento ha un problema: non tutto ciò che è on line è economia non italiana. Se avessi avuto lo spid, a quest’ora sarei iscritta a una lotteria che avrei zero probabilità di vincere, giacché sono anni che i miei acquisti avvengono solo on line. Ma se faccio la spesa sul sito di Esselunga è come la facessi nel supermercato sotto casa, mica come se pagassi qualcuno con la residenza fiscale alle Cayman – no?

L’idea di darti gli spiccetti premio solo se ti vesti ed esci e vai a spendere in giro, invece di cliccare dal telefono e farti consegnare a domicilio, cos’è: un’idea pensata per farci meglio diffondere il virus? Quanti che ordinavano la spesa su Cortilia ora andranno a farla dal fruttivendolo così concorreranno alla restituzione (ammesso che il fruttivendolo prenda la carta di credito)?

Certo, è un ristoro per il fruttivendolo (ristoro ma sopruso: gli tocca non evadere le tasse), ma è anche il contrario del principio che continuano a predicarci: meno vai in giro e meglio è.

Poi certo, l’alternativa sarebbe stata essere in grado di distinguere. Dirci che sul sito della cascina lombarda che coltiva il cavolo nero potevamo comprare e fare cumulo per la restituzione, su quello di Amazon no. Ma, se non riescono a fare una cosa semplice come far pagare le tasse alle multinazionali, figuriamoci se riescono a fare distinzioni così sofisticate. Signora mia.