I tuffatori di MostarIl documentario sui tuffatori del ponte di Mostar

Presentato al Torino Film Festival 2020, il film di esordio del regista italiano Daniele Babbo è uno spaccato iconico dell‘Europa orientale. Un ritratto che scava nelle vite e nella passione degli atleti, ma ripercorre anche i nodi più dolorosi della guerra che ha devastato la Bosnia ed Erzegovina

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Pubblicato originariamente su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

Daniele Babbo (conosciuto come Dandaddy per i suoi videoclip) ha presentato al Torino Film Festival 2020 il suo primo documentario alla regia, raccontando un elemento iconico dei Balcani: i tuffatori di Mostar, figure indissolubilmente legate al ponte, lo Stari Most, ricostruito dopo la devastazione della guerra. Un ritratto corale essenziale, che si avvicina con delicatezza e rispetto per guardare sotto la superficie. Babbo ha risposto alle nostre domande al telefono, esordendo così: «Sono sempre stato un appassionato di Balcani… vado sempre ad est. Uzbekistan, Georgia, Romania sono le ultime mete che ho visitato. Sono affascinato dall’est».

“I tuffatori” è la tua opera prima: racconti di averli incontrati durante una vacanza, ma cosa ti ha agganciato? Com’è andato il tuo primo incontro?
È andata così: ero in vacanza, stavo facendo un giro della Bosnia e dopo Banja Luka e Travnik sono arrivato a Mostar. Una delle prime scene che ho visto è stata proprio di questo ragazzo che guardava giù dal ponte – la stessa che si vede nella preview. Mentre lo osservavo, sentii un signore parlare in italiano e mi sono avvicinato per chiedergli un po’ di informazioni. Già conoscevo la storia del ponte e vagamente la tradizione dei tuffi, non bene però. Ho stretto amicizia davanti a un caffè e a una sigaretta con Mustafa, che è poi diventata una figura importantissima per tutto il processo di realizzazione del documentario.

Mustafa è un signore sulla sessantina che ha vissuto in Italia per vent’anni dopo la guerra ed è poi tornato a Mostar. Mi ha aiutato ad avvicinarmi ai tuffatori. Quel giorno è stata proprio una toccata e fuga, però sono rimasto con la curiosità: arrivavano turisti che li fotografavano e che poi se ne andavano. Loro invece facevano il tuffo e poi tornavano nel club sopra il ponte, si sedevano e continuavano a parlare e parlare… Chiesi a Mustafa di cosa parlassero e lui mi rispose che parlavano di tecnica, di com’era prima della guerra… la stessa cosa che succede nel film e ancora oggi. Stanno sempre estremamente attenti a quello che fanno, hanno proprio una passione e sono legati col cuore a quello che fanno.

Quando hai capito (o deciso) che sarebbe diventato un film?
Nella mia testa è nata la curiosità di scoprire cosa c’è dietro queste persone: chi sono oltre al gesto così forte di buttarsi da un ponte di 20 e passa metri in un fiume gelido. Dopo qualche mese sono tornato, ho chiesto a Mustafa se potevo raggiungerli e stare un po’ con loro. Sono stato 3-4 giorni e loro sono stati molto calorosi e simpatici con me. Mi dicevano, in pieno stile balcanico: «Non ti preoccupare, tu puoi stare qua con noi, non c’è nessun problema». Però piano piano volevo far capire loro che non volevo limitarmi a raccontare il tuffo, ma stare con loro, e ci ho messo un po’ di più.

Come ti sei approcciato? È stato difficile avvicinarsi e accedere alla loro comunità?
Lo è stato, anche perché la lingua era un limite: io non parlo il bosniaco, quindi con alcuni parlavo in inglese, con altri ci intendevamo a caffè e sigarette. A luglio 2017 sono tornato da solo e sono rimasto un mese intero con loro. Quello è stato un passaggio importante, 24 ore su 24 a vivere insieme – come dicono loro «You’re a brother from a different mother» e mi faceva sempre ridere.

Mangiavo ćevapi con la pita tutto il giorno, bevevo mille birre e la rakija. Se fossi stato astemio sarebbe stato un problema fare questo documentario, ma essendo friulano ero avvantaggiato. Mi hanno subito accolto e piano piano ho cominciato a stringere amicizia con loro e hanno iniziato a raccontarmi sempre di più. Sono andato in profondità soprattutto con alcuni di loro, con Igor, con Miro e con Goran.

Il film dapprima osserva i tuffatori all’opera, esamina le diverse tecniche e le diverse personalità di questi personaggi. Poi lo sguardo si avvicina, in particolare con due di loro. Come sei riuscito ad avvicinarti così tanto?
Perché c’è stato tantissimo rispetto: io non ho mai chiesto di recitare qualcosa per me, e loro non mi hanno mai detto di non fare delle cose. È stato tutto molto graduale e quindi ormai era quasi normale che loro rientrassero nel club, appendessero un costume e io entrassi a cambiare una batteria: la mia presenza era quasi parte della loro routine. Non c’è stato un singolo giorno in cui non mi sia fermato con loro alla fine della giornata a chiacchierare, a mangiare, a bere una birra. Era come quando vai a fare un viaggio con degli amici stretti, no?

Igor l’hai addirittura seguito in Norvegia…
Poco dopo esser diventato padre, Igor mi disse di aver trovato la possibilità di andare in Norvegia e di aver accettato, dato che d’inverno a Mostar c’è pochissimo lavoro. Quindi l’ho raggiunto. Ha dovuto lasciare tutto quello che amava, il suo ponte, la sua terra. Lui era anche il tuffatore più bravo di tutti e quello che mi ha colpito tantissimo erano queste telefonate con Gouma e il figlio piccolo. E poi, ascoltava continuamente la musica di casa che ama. Una sera faceva freddissimo e lui ha messo questa canzone di Dino Merlin, Mostarska, e lo vedevo che era proprio distrutto. Voleva tornare a casa. Questo è l’amore per Mostar, secondo me.

C’è qualcosa che avresti voluto inserire nel film ma non ha trovato posto?
Quante cose sono rimaste fuori! A un certo punto ho dovuto riflettere e capire qual era il modo migliore per fare arrivare quello che volevo: cioè rappresentare una comunità di ragazzi che ha attraversato e sta attraversando periodi difficili, che non sa come sarà il futuro, e nonostante questo hanno il ponte tatuato sul petto, sono fratelli e ti trattano come tale. Volevo seguire questa linea senza scendere a spiegazioni o compromessi o parlare troppo della guerra. Volevo che solo Miro e Goran parlassero della guerra perché l’hanno vissuta sulla loro pelle e quindi era giusto che lo facessero.

Per questo hai usato i filmati di repertorio?
Il mio primo pensiero è che non tutti conoscono quel mondo. Ai personaggi ti puoi affezionare a prescindere dal luogo di provenienza o altro, ma in questo caso il contesto è importante per la loro storia. Quando Goran mi ha detto che il ponte era stato distrutto proprio mentre stavano in campo di concentramento, così, ho pensato di poterlo far vedere. L’uso del repertorio l’ho ritenuto importante, perché era giusto far vedere la sofferenza che Goran mi stava raccontando.

Ho usato anche lo spezzone in cui Goran giovane si tuffa perché ricorda che lo facevano anche prima della guerra, per mostrare che loro stanno comunque portando avanti qualcosa che ci è sempre stato e per far vedere Mostar prima della guerra. Tutti loro sono molto nostalgici del periodo socialista di Tito. Oggi, molti di loro non si tuffano più: Igor sta in Olanda, Edi è diventato padre e vive in Germania con la compagna…

Che idea ti sei fatto della Mostar (e della Bosnia Erzegovina) di oggi?
L’idea che mi sono fatto di Mostar è complessa. Tutto quello che è successo pesa ancora tantissimo in quelle zone. A Mostar è finita una guerra e da allora è cambiato radicalmente tutto: non è stato ricostruito solo il ponte, è stata ricostruita una città. Mostar oggi è una piccola bomboniera legata al turismo. I tuffi sono legati ad esso e i tuffatori campano grazie al cappello che fanno ogni giorno, così come i negozietti di souvenir e cianfrusaglie campano grazie al turismo. Non ci sono posti di lavoro, almeno non come era prima, anche quelli più umili in azienda. C’è una disoccupazione altissima. Gira tutto attorno al turismo e quando ci sono stato in periodi di bassa stagione, come a febbraio-marzo, si vede che la città muore.

Questo succede in tutta la Bosnia Erzegovina, anche a Sarajevo è la stessa cosa, per quanto ci siano cose diverse e si muova in modo diverso. Vedo che loro sono delle persone un po’ distrutte dentro – vedono che il loro futuro lì è impossibile. Vuoi lavorare? Sai che per farlo devi andartene da Mostar. Però il legame con quella città è enorme e quindi c’è sempre questa lacerazione, questo scontro tra l’appartenenza così forte e la necessità di sopravvivere.

A Mostar si voterà finalmente dopo 12 anni. Una cosa che mi sento di aggiungere è riguardo la divisione tra la parte bosgnacca e la parte croata; sembrano due città diverse. Loro, i tuffatori, sono nati quasi tutti da matrimoni misti, che è sempre stata una cosa normale prima della guerra. Sono proprio nati in un mondo diverso. Goran lo dice nel film: nessuno guardava se eri serbo, croato o musulmano. Con tutti i limiti del socialismo di Tito, a Mostar prima stavano in una specie di paradiso. Potevano lavorare, avevano uno stipendio e avevano il tempo di bersi il caffè e fumare le sigarette. Adesso è difficile, nonostante la propensione a restare tutti assieme. Questa situazione è frutto di un lavoro ben studiato da chi voleva dividere invece di unire, un processo che dura da 40 anni e ancora continua. I nazionalismi questo fanno ed è inevitabile che queste divisioni si sentano.

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