Alexey Navalny se ne era andato dalla Russia nell’agosto scorso, chiuso in un box di rianimazione, in coma profondo, con nel corpo un veleno mortale. È tornato cinque mesi dopo, a bordo di un low-cost Berlino-Mosca, abbandonando la protezione di Angela Merkel per sfidare il Cremlino nell’ultimo duello. È stato arrestato ancora prima del controllo passaporti, con un’accusa montata e un mandato di cattura retrodatato, abbracciando la moglie Yulia sotto le telecamere dei giornalisti prima di sparire insieme agli agenti di polizia russi. Una vicenda che ha tenuto appiccicati ai monitor milioni di persone – solo il tracking del suo volo è stato seguito in tempo reale da 550 mila utenti – e che ha dimostrato definitivamente due cose: che Navalny ormai è una superstar della politica globale, e che Vladimir Putin ha paura di lui più di qualunque altra cosa.
Perfino per molti dei suoi seguaci era suonata come una follia: sopravvivere per miracolo a un avvelenamento, riuscire a identificare e a smascherare davanti a tutto il mondo i propri assassini dei servizi segreti russi, e poi decidere di tornare in patria. Ma Navalny non sarebbe quello che è – un politico, un oppositore, un rivoluzionario – se avesse scelto il ruolo di esule di lusso: doveva essere lui a rovesciare il regime, con le sue mani. Un sacrificio in diretta globale, con un aereo zeppo di giornalisti e telecamere, e una folla di sostenitori ad attenderlo all’aeroporto Vnukovo.
Il “Venite ad accogliermi!” che Alexey aveva lanciato su Instagram non era diretto soltanto ai suoi numerosi fan, ma anche agli uomini di Putin: se l’avessero lasciato entrare indisturbato, avrebbero mostrato di temerlo, se avessero provato a fermarlo l’avrebbero consacrato definitivamente il nemico numero uno del Cremlino, il politico più famoso della Russia dopo il presidente, e il dissidente più celebre del pianeta, un erede di Sakharov e Solzhenitsyn con un account Twitter, proclamato già domenica sera prigioniero di coscienza da Amnesty, mentre cancellerie di mezzo mondo ne esigevano l’immediata liberazione e incolumità.
Una delle interviste rilasciate da Navalny per raccontare come Putin aveva tentato di ucciderlo era stata intitolata dall’Economist “The Man Who Lived”, l’uomo che è sopravvissuto. La citazione letterale da Harry Potter era calzante: tentando di ucciderlo Putin aveva trasformato con le sue mani il suo nemico in un’arma mortale. E siccome Navalny appartiene alla generazione che ha letto i libri di J.K. Rowling ai suoi figli, ha imparato anche la lezione principale di Harry Potter: non avere paura della paura.
Invece di nascondersi, Navalny ha spinto Putin allo scontro, e il Cremlino è andato nel panico. Mentre il presidente – che non chiama mai Navalny per nome, un gesto scaramantico che ricorda di nuovo la saga potteriana – faceva sapere che il “blogger” e il “paziente berlinese” era un personaggio insignificante al soldo degli americani, i suoi giudici inventavano per il suo nemico sempre nuove accuse e minacce, fino a spiccare un mandato di cattura retrodatato su una condanna condizionale che, oltre a essere stata ritenuta politicamente motivata dalla Corte di Strasburgo, era pure scaduta. L’invito a diventare un esule era fin troppo chiaro, come la paura che il ritorno in patria si trasformasse in trionfo.
In attesa dell’atterraggio, domenica sera, le autorità avevano tentato di bloccare l’aeroporto di Vnukovo, invaso la sala arrivi con le teste di cuoio, arrestato i principali collaboratori di Navalny incluso suo fratello, bloccato attivisti che prendevano treni e aerei per Mosca, inscenato nell’aeroporto un party dei fan di una cantante pop che avrebbe dovuto atterrare nello stesso momento, e infine dirottato all’ultimo momento il volo DP936 a un altro scalo, Sheremetievo, mentre l’autostrada d’accesso al terminal veniva bloccata dalla polizia stradale.
Un nervosismo e una confusione che hanno rovinato l’immagine di “uomo forte” di Putin molto più di quanto avrebbero potuto fare le denunce dei dissidenti. «Non ho paura di nulla perché la ragione è dalla mia parte, e invito anche voi a non avere paura», ha detto Navalny appena atterrato all’aeroporto, con sullo sfondo un manifesto pubblicitario del Cremlino che poteva venire letto come un presagio di trionfo o di sventure.
Cinque minuti dopo è stato arrestato da un gruppo di poliziotti abbastanza imbarazzati, e portato via verso una destinazione ignota, senza avvocato e in violazione di tutte le leggi russe. Il 29 gennaio una corte dovrà decidere se rendere reale una condanna condizionale scaduta tre anni fa. Il dado è stato tratto. Putin ha mostrato di essere pronto a tutto pur di bloccare il leader dell’opposizione. Navalny ha dimostrato di non avere paura, e un dittatore che non fa paura non è più Colui-che-non-può-essere-nominato. Anche se uccide o rinchiude il nemico, ha già perso.