Tra pochi giorni, quando cadrà il centesimo anniversario della sua nascita (Racalmuto, 8 gennaio 1921), a Leonardo Sciascia capiterà qualcosa di simile a quello che accadde in morte a Giovanni Falcone.
L’omaggio più partecipe, commosso e riconoscente sarà quello dei suoi peggiori nemici; di quelli che a Sciascia non perdonarono il tradimento del “realismo antimafia” – la variante domestica e giornalistico-giudiziaria del realismo socialista sovietico – come a Falcone non fu perdonato il tradimento della corporazione antimafiosa, il protagonismo eterodosso, le deviazioni dall’ideologia dell’emergenza permanente e il pensiero eccentrico, perfettamente rappresentato dal suo sostegno alla separazione delle carriere dei magistrati.
La polemica sui professionisti dell’antimafia – che non fu uno scivolone o un bisbetico divertissement, ma il cuore dello scandalo di questo illuminista consapevole di (dovere) essere uno straniero nella sua patria italiana e siciliana – fece esplodere una differenza letteralmente insopportabile per i teorici della giustizia “combattente”: la lotta alla mafia e l’amore per il diritto non erano per Sciascia istanze distinte e subordinabili, ma due facce della stessa medaglia, due aspetti non disgiungibili della passione per la giustizia come esercizio di ragione.
Sciascia disprezzava e soprattutto temeva la mafia come temeva e disprezzava un’antimafia rovesciata nel suo uguale e contrario, in un’affermazione di un potere buono contro uno cattivo, cioè semplicemente nella lotta di un potere contro un altro. Sciascia infatti, che dal punto di vista ideologico non era oggettivamente incasellabile secondo categorie otto-novecentesche (non era liberale, non era comunista), aveva un senso profondo della commedia e della tragedia del potere e della pretesa umana di rappresentarlo, fondandolo sulle sabbie mobili dell’arbitrio politico o dell’autorità religiosa.
Sciascia iniziò a scrivere di mafia quando la mafia, ufficialmente, ancora “non esisteva” e vi trovò le tracce non solo di un atavismo siciliano deteriore, ma di un’ideologia nazionale ben più pervasiva. Poi gli accadde di essere traslocato d’ufficio nel recinto politico para-mafioso dai nuovi padroni della verità mediatico-giudiziaria e di essere processato da personaggi del calibro di Nando Dalla Chiesa, che lo accusava – niente meno – di essere in combutta con Sindona, come a Falcone toccò misurarsi con tipi come Leoluca Orlando, che lo incolpava di tenere nascoste nei cassetti le prove dei delitti di mafia.
Forse la verità, che nei suoi libri esce sempre semplice e pulita da un faticoso garbuglio di dubbi e di rovelli, è che Sciascia è stato un irregolare involontario, trascinato suo malgrado a un impegno che trascendeva desideri e intenzioni, ma a cui finiva per votarsi per necessaria ribellione verso un potere, di cui non avvertiva il fascino, ma il pericolo, che sentiva il dovere di denunciare e combattere.
Quando, seguendo Vitaliano Brancati che diceva scherzando, ma non troppo, che «in Sicilia, per essere liberale, bisogna votare almeno comunista», scelse di candidarsi nelle fila del PCI a Palermo nel 1975 – per dolersene molto presto – e quando accettò la candidatura di Marco Pannella per il Partito radicale alle elezioni politiche e europee del 1979 – inaugurando un sodalizio che durò fino alla sua morte – Sciascia obbedì a un imperativo morale sofferto, ma si mise all’opera con quell’agonismo razionale, che faceva innamorare i suoi amici e impazzire i suoi avversari e che gli guadagnò negli ultimi anni di vita una popolarità probabilmente né voluta, né gradita.
Sciascia merita la patente di vero scrittore civile non per ragioni tematiche o per una particolare inclinazione didascalica, ma perché i suoi meriti letterari, che sono problematici e immensi come quelli di molti grandi, sono inscritti in una parabola politica che lo stesso autore ha consapevolmente disegnato e di cui ha sempre rivendicato, nella sua solitudine e gelosa autonomia, uno speciale vanto. Non c’è praticamente romanzo o racconto di Sciascia che non sia politico, che non veda nella politica, cioè nel rapporto tra il potere e il diritto, tra la rappresentazione della realtà e la sua umana sostanza, il momento in cui si costituisce o si corrompe la forza dello Stato e delle relazioni sociali.
Anche nelle versioni più intime – come nel personaggio semi-autobiografico del suo quasi congedo: Il cavaliere e la morte, 1989 – la letteratura sciasciana è sempre al centro della storia o di una sua metafora grottesca e sinistra, ma non è mai privata. In questo lo scrittore siciliano era un illuminista integrale: la vita è sempre in primo luogo la vita pubblica, la vita nel rapporto della ragione con il potere e l’autorità. La verità in Sciascia, tanto nel letterato, quanto nel polemista o nel critico eclettico che spaziava dalla teologia all’arte figurativa, è sempre politica. Ma lo è nella misura in cui il potere segue i dettami e i limiti della ragione, senza pretendere di eccederli per cause di forza maggiore o di giustificazione morale, che la ragione non legittima o di cui svela l’inganno o la falsa coscienza.
La cultura italiana, non solo la letteratura, è tributaria a Sciascia di tante intuizioni e scoperte. Da quel “pirandellismo di natura” che diventa non solo maschera, ma identità e quindi recitazione quasi involontaria della commedia del potere, all’idea dell’Inquisizione come forma eterna della giustizia, non limitata all’esperienza dei tribunali ecclesiastici speciali, ma destinata a tracimare in tutte le esperienze totalitarie: non come affermazione di diritto, ma come suo pervertimento.
Per ironia della storia il centenario sciasciano coincide con una fase della politica italiana, che vede al vertice delle istituzioni una figura che del pirandellismo di natura, cioè di un trasformismo quasi vocazionale, è un campione emblematico. E a via Arenula, a governare la Giustizia, c’è un piccolo inquisitore siciliano, che come tutto il suo codazzo manettaro non ha neppure la speranza di ambire alla grandezza degli inquisitori sciasciani. Coincidenza singolare, ma non per Sciascia, da sempre persuaso che «le uniche cose sicure in questo mondo siano le coincidenze».
A trentadue anni dalla sua morte e cento dalla sua nascita, si può dire che di Sciascia nella vita pubblica italiana non è invece rimasto quasi nulla. La resistenza delle minoranze liberali e radicali contro la giustizia come prosecuzione della “guerra” (alla mafia, al terrorismo, alla corruzione…) con altri mezzi e una pubblicistica ancora più minoritaria, ma impegnata contro l’uso politico della giurisdizione e la monumentalizzazione dell’impegno antimafia come fonte di legittimazione universale. Per il resto, niente.
Ora, il rischio peggiore è che il centenario sia festeggiato innalzando un monumento orrendo a uno scrittore finto, allo Sciascia che avrebbe dovuto essere e per fortuna non è stato: allineato, ancillare e anti-mafiosamente corretto. E a guardare i giornali di questi giorni, gli osceni festeggiamenti sono già iniziati.
Forse a Sciascia è davvero toccata la sorte del «personaggio che non doveva più lasciarmi», Fra’ Diego La Matina, racalmutese come lui, che dopo avere incredibilmente ucciso il suo inquisitore Juan Lopez de Cisneros, finisce comunque vittima dell’Inquisizione (Morte dell’Inquisitore, 1964). E ci vorrebbe un altro Sciascia, in fondo, per raccontare il senso della vicenda politico-letteraria del Maestro di Regalpetra.