Al margine, ma neppure tanto, dell’incredibile rivolta del Campidoglio, c’è stata la decisione di “bannare” Trump, cioè di escluderlo dai principali social media. Esclusione che vale per Facebook fino al 20 gennaio (data dell’insediamento di Biden) e dopo si vedrà. Ha avuto un sollievo chi ha pensato che Trump potesse usare quegli strumenti per alimentare la rivolta, però la decisione costituisce un precedente storico e un pericolo enorme da non sottovalutare.
Chi l’ha decisa? È stato Mark Zuckerberg con un post, naturalmente su Facebook. Seguiamo le sue parole «we removed this statement… because we judged», cioè «noi abbiamo rimosso questo post… perché noi abbiamo giudicato»; seguiamolo ancora: «We have allowed President Trump… we are extended the block we have placed on his Facebook account indefinitely…», cioè «noi abbiamo permesso…» e ancora «noi abbiamo bloccato definitivamente il suo account». È tutto un susseguirsi di «noi» e di permessi accordati. Perciò una singola persona, il capo di un’azienda privata, ha deciso che uno dei massimi protagonisti della vita americana (protagonista – ahinoi – per i voti che ha preso, e non per altre ragioni) non ha accesso alla più popolare fonte di informazione politica negli Stati Uniti.
Lo stesso Zuckerberg, appena poco tempo fa, si è dovuto difendere in Congresso dagli attacchi dei Democratici che gli imputavano il suo appoggio, anzi la messa a disposizione di Cambridge Analytica, che ha guidato e sostenuto la campagna elettorale proprio di Trump, dei dati acquisti da e per mezzo di Facebook. Perciò il capo di un’azienda privata in un tempo ha deciso che la forza della sua formidabile macchina di consenso poteva essere messa al servizio di uno dei competitor alla Casa Bianca, e in un altro momento che lo stesso competitor, sconfitto alle successive presidenziali, non possa partecipare al dibattito pubblico. La stessa Facebook non molto tempo fa aveva dichiarato che non era in grado di bloccare le fake-news, sostenendo di non essere un editore, perciò di non essere responsabile dei contenuti, pur essendo il flusso delle notizie e l’ampiezza della loro diffusione determinati da un suo algoritmo proprietario.
C’è ancora da riflettere sulle conseguenze profonde del meccanismo del clickbait (cioè il coinvolgimento degli utenti attraverso notizie e idee particolarmente impressive dal punto di vista emozionale) che oggi è l’elemento cruciale che alimenta la polarizzazione politica sia in America che in Europa. La rivolta del Campidoglio è la conseguenza più evidente dell’effetto echo-chamber (la costruzione di bolle autoreferenti di informazione che si alimentano a dismisura attraverso la ripetizione ossessiva, ipnotica dello stesso messaggio nello stesso gruppo di utenti e conseguente chiusura verso qualunque altro contenuto che lo smentisca o lo attenui).
Consideriamo che negli Stati Uniti Facebook ha 235 milioni di utenti attivi, perciò un numero enorme, e che il 43 per cento degli Americani riceve (e produce) informazione politica soprattutto da Facebook. In sostanza, considerando anche il tempo utilizzato sulla piattaforma, il coinvolgimento emotivo e la capacità di socializzare il proprio pensiero, Facebook è oggi la principale fonte di informazione politica e perciò la via principale attraverso cui si formano e si alimentano le opinioni politiche. Aggiungiamo che il 53 per cento delle persone non ha assolutamente idea che le notizie che leggono sui social media sono regolate, selezionate e non sono (solo) il flusso spontaneo, incontaminato, neutro di quanto gli utenti producono.
Gli utenti di Facebook in Italia sono quasi trenta milioni, e mediamente vi passano un’ora al giorno (si faccia un piccolo calcolo e si vedrà quanto è immenso e pervasivo questo potere), poi ci sono venti milioni di utenti Instagram e i trentadue milioni che usano WhatsApp, di proprietà della stessa Facebook. Inoltre, è notizia di queste ore, che nelle nuove regole in vigore dall’8 febbraio prossimo, i dati dell’utente di WhatsApp saranno utilizzati per annunci pubblicizzati che l’utente si troverà sulla sua time-line di Facebook. Si chiama marketing targettizzato. Dimentichiamo i segmenti di mercato socio-demografici d’un tempo, adesso il target è la singola persona, con nome e cognome, il numero di telefono, l’indirizzo, e le sue scale di preferenza su ogni argomento.
Torniamo all’informazione politica. È normale che una singola persona decida chi possa accedere e chi no al canale principale di informazione politica, quali idee siano giuste, perciò da sostenere, e quali no? Perché non c’è solo la situazione in/out, cioè essere presenti o non essere presenti su una piattaforma di informazione, ma di come vengono promosse o non promosse (shaping) tutte le notizie. Ad esempio, cosa penserà l’algoritmo delle posizioni della senatrice democratica Elizabeth Warren, che sostiene di dividere Facebook, spezzandone il monopolio di fatto? Come si comporterà durante una campagna elettorale, ad esempio in Italia, visto che le regole che valgono per i comizi, per i giornali e per la tv non si applicano ai social media? In sostanza, la libera informazione politica fa parte del diritto privato o del diritto pubblico?
Altro argomento riguarda l’aspetto preventivo della censura. Così come sono previsti i reati per mezzo stampa, è anche previsto il reato per mezzo dell’informazione digitale. Perciò il messaggio che incita alla violenza è perseguito, se un giudice ritiene che abbia queste finalità o queste conseguenze, ma non andrebbe perseguita la presenza tout court di un soggetto politico in quanto tale, chiunque esso sia. Un potere pervasivo così immenso non può essere regolato da una singola persona, da una singola azienda, perché come qualunque persona e qualunque azienda avrà, potrà avere, le sue convenienze a adottare un comportamento piuttosto che un altro. Le regole che sovrintendono il dibattito politico non possono che avere una regolazione pubblica.
Un passo decisivo in questa direzione è stato qualche giorno fa il Democracy Act Plan e Digital Service Act della Commissaria europea Margrethe Vestager, nei quali si definisce come i social media, la gestione dei dati personali e tutto il resto debbano essere in qualche modo ricondotti alle regole e ai diritti delle democrazie.
Il potere digitale sta occupando progressivamente lo spazio pubblico, sebbene si componga di una moltitudine di soggetti privati. È un potere fondato su un diritto auto-prodotto (le regole d’accesso al servizio), ma le sue conseguenze sono pubbliche, cioè si ripercuotono su tutti. Il bene (e il futuro) della democrazia si giocano su questi temi, senza accontentarsi che accidentalmente una decisione sia favorevole o contraria a una parte politica in un dato momento della storia.