Il Covid ammazza anche Phil Spector, 81 anni, produttore-leggenda di una musica che non c’è più, ma che non tramonta mai. Il tutto è accaduto nella galera di Stockton, California, (o meglio nell’ospedale dov’era ricoverato), in cui era rinchiuso dopo essere stato riconosciuto colpevole dell’omicidio, avvenuto nel 2003, di Lana Clarkson, una cameriera della House of Blues di Hollywood che aveva accettato di seguirlo nella sua magione, alla fine di uno dei suoi raid predatori nelle notti di LA.
Dal 2009, all’indomani della condanna a 19 anni di prigione, le porte del carcere si erano chiuse dietro di lui, per non riaprirsi più, a dispetto dei suoi periodici appelli, nei quali invocava la casualità dell’episodio di cui s’era reso responsabile. Ormai l’America lo aveva bollato come il villain che lui del resto aveva sempre interpretato, coi suoi modi dispotici, la smodata passione per le armi, i suoi eccessi di droghe e alcol e un carattere semplicemente pestilenziale. Che nella sua vita ci fosse stato molto genio, in pochi ormai si davano pena di ricordarlo. Eppure Phil era stato un autentico fenomeno dei suoi tempi, emblema di un boom memorabile, spericolato talento che aveva saputo intercettare, o addirittura indirizzare l’aria dei tempi. Campo della sua arte erano stati gli anni Sessanta americani e la fabbrica dei successi che usava la radiofonia come veicolo di diffusione.
La sua ascesa era stata una questione veloce: nato nel Bronx da una famiglia di emigranti russi, orfano di padre a 8 anni, aveva seguito la madre in California e ancora teenager, con la band dei Teddy Bears messa su coi compagni di scuola alla Fairfax di LA, aveva inciso un brano che nel ’58 era arrivato addirittura al primo posto delle classifiche di vendita: “To Know Him Is to Love Him”, ballata supersoft il cui titolo altro non era che l’epigrafe sulla tomba di suo padre. Nel ‘65 niente meno che Tom Wolfe si occupa di raccontare la storia di colui che battezza come “Il primo tycoon minorenne”, dal momento che nei cinque anni precedenti Phil ha nel frattempo piazzato addirittura 24 pezzi nelle charts americane, molti destinati a diventare degli evergreen.
La hit-factory targata Spector lavorava a pieno regime: l’idea di base era stata quella di trasformare un collaboratore invisibile alla creazione discografica, il produttore, nel protagonista assoluto dell’operazione – una nemesi dunque di quanto dall’altra parte dell’Atlantico traspariva nella collaborazione tra i Beatles e il quieto, disciplinato ma indispensabile George Martin. Spector, invece, era la stella assoluta, e suo era il copyright di quel suono, il wall of sound che generava sovrapponendo le registrazioni di dozzine di strumenti elettrici e orchestrali, conditi da poderosi cori in crescendo le cui proporzioni assumevano dimensioni “wagneriane” (definizione a lui gradita), condite delle risonanze di echi e reverberi che rendevano inconfondibili le sue canzoni.
Praticamente i gruppi – perlopiù vocali e femminili – a cui venivano affidate queste creazioni, erano allestiti appositamente, in una subalternità dell’artista rispetto al produttore che non conosceva precedenti. È il sottotesto alla popolarità delle Crystals (“He’s a Rebel”, “Uptown”, “Then He Kissed Me”, “Da Doo Ron Ron”) e delle Ronettes (“Be My Baby” e “Walking in the Rain”) ma anche dei Righteous Brothers, la sigla più allegorica di quel pop, i cui indimenticabili campioni d’incasso “Unchained Melody” e “You’ve Lost That Lovin’ Feeling” costituiscono il picco creativo, il perfezionamento nella visione musicale – mistica e testosteronica – di Phil Spector. “Piccole sinfonie per ragazzi”, le chiamava immodestamente lui.
Eppure già nel ’66, in coincidenza con l’inatteso fiasco americano di un’altra opera monumentale come “River Deep, Mountain High” di Ike & Tina Turner, la curva ascendente di Spector conosce la prima flessione, mentre la sua biografia si riempie di macchie sempre più impresentabili e il suo carattere iracondo lo rende una figura davanti alla quale cambiare marciapiede. Ma i grandi continuano a rendergli omaggio: a lui va l’incarico di salvare il salvabile nella tormentata realizzazione di “Let It Be”, canto del cigno beatlesiano, e lui verrà adorato da John Lennon (che con lui realizzerà nel ’73 lo smagliante cover album solistico “Rock’n’Roll”) e odiato da Paul McCartney, che non gli perdonerà il profluvio orchestrale della title track e di “The Long and Winding Road” (al punto, molti anni più tardi, di ripubblicarne la versione epurata dagli arrangiamenti spectoriani).
Perfino un caposcuola come Brian Wilson dichiarerà la sua totale venerazione per Spector e a lui s’ispirerà Bruce Springsteen, che letteralmente importa il wall of sound nella canzone-manifesto “Born To Run” e, più in generale, in tante sue saghe del Jersey. E anche Peter Fonda, archetipo della ‘60 coolness americana, lo vuole a tutti i costi sul set di quel film-passerella che è “Easy Ryder”, per interpretare Connection, lo spacciatore dai memorabili Ray-ban gialli. Poi il declino di Spector accelera, anche se il suo astro resta fisso almeno tra i musicisti, se addirittura i Ramones si ricordano di lui e lo convocano per produrre il loro album più disastroso, “End of the Century”. Ma ormai Spector è la perifrasi del bisbetico isolato e rancoroso: il mondo del pop non lo ama più, al massimo lo cita. E lui, abbandonato da mogli e amanti, vive solo in quel patetico castello da cui quella notte del 2003 emerge con una pistola in mano, balbettando all’autista: «Credo d’aver ucciso qualcuno». Il resto è rotocalco.
Novello O. J. Simpson, Spector si difende rabbiosamente, sembra prima sfuggire alla giustizia per essere infine giudicato, imprigionato e svergognato. La sua figura nel frattempo ha assunto fattezze dickensiane, condannato a sembrare l’incarnazione del vizio. E l’America, l’America in particolare, ha preso a detestarlo, senza peraltro smettere di suonare all’infinito le sue canzoni nelle autoradio notturne. Ma questa, appunto, è l’America.