Twittatori e populistiQuelli che scambiano la parodia della Marcia su Roma per la presa della Bastiglia

Barca, Montanari e gli intellettuali per cui l’assalto al Congresso americano mostrerebbe «a quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze»

Charles Thevenin
Charles Thevenin, “La prise de la Bastille”

Mentre il mondo assisteva tra l’incredulo e l’angosciato alla tragica farsa dell’assalto trumpiano al congresso – tragica farsa, è bene ricordare, in cui sono morte quattro persone – in Italia andava in scena un copione fortunatamente meno tragico, ma non meno surreale.

Per una volta, però, non voglio parlare dei tardivi e timidissimi tweet, più pigolii che cinguettii, emessi dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri, casualmente entrambi esponenti di quel Movimento 5 stelle che di Donald Trump e del trumpismo si è sempre e correttamente considerato una sorta di partito fratello.

In proposito, bastano le parole di Walter Veltroni: «Non si può commentare l’attacco alla democrazia americana senza condannare esplicitamente chi ne è responsabile». Cosa che ha fatto Angela Merkel, come gran parte dei leader dell’occidente democratico (categoria che evidentemente non include Giuseppe Conte e Luigi Di Maio). Al riguardo, è giusto segnalare anche le parole del vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, che a proposito delle dichiarazioni di Conte ha osservato: «Avrei detto di più». Non sarà molto ma è più di quanto il Pd abbia mai detto dalla nascita del governo a oggi. Se non altro, è un piccolo segnale di vita. Ma avevo detto che di questo non volevo parlare, e quindi non ne parlerò.

Voglio parlare invece di quegli intellettuali che ormai, a forza di ripetere il solito ritornello sulla sinistra della ztl incapace di comprendere le ragioni della rivolta populista – diseguaglianze, esclusione sociale, disagio delle periferie – hanno finito per scambiare una parodia della marcia su Roma per la presa della Bastiglia.

Il dibattito sul disorientamento della sinistra e dei suoi intellettuali è antico quanto la sinistra stessa, e forse persino più noioso (della sinistra, dei suoi intellettuali e di questo tipo di dibattiti in generale), quindi cercherò di andare subito al punto.

Di fronte alle prime immagini dell’assalto fascista al parlamento americano, condotto da qualche centinaio di esaltati, convocati e aizzati appositamente da Donald Trump, Fabrizio Barca ha espresso su twitter il seguente commento: «Scene che ci fanno riflettere su estrema fragilità democrazia Usa. Ma, attenzione, è un segnale per tutte le democrazie. A quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un’alternativa. E lo spazio che ciò apre all’autoritarismo».

Prima di proseguire, provate a immaginare se queste parole, nel pieno dell’assalto al Congresso, le avesse pronunciate Giorgia Meloni (che è stata giustamente criticata per averne pronunciate altre, molto simili a quelle dei nostri statisti grillini, giusto con un pizzico in più di estrema lealtà al leader golpista contenuto in un surreale «mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal Presidente Trump», cioè da colui che le aveva innescate).

In ogni caso, se la questione si fosse chiusa così, con un’osservazione fuori luogo, fuori tempo e fuori tono, buttata lì su twitter come è capitato a tutti, non ci sarebbe nemmeno ragione di parlarne. Il fatto notevole è che da quel momento in poi Barca non ha esitato a tornare sul punto e ad aprire un acceso dibattito, in cui sono intervenuti a suo sostegno diversi autorevoli intellettuali di sinistra, dal direttore del Mulino Mario Ricciardi al critico d’arte Tomaso Montanari, evidenziando dunque che non si trattava della gaffe di un singolo, ma di una fermissima e relativamente diffusa convinzione. «È esattamente così purtroppo. La tragedia di una #democrazia che non riesce a costruire #eguaglianza e #giustizia», ha tuittato ad esempio Montanari.

Ricapitolando, l’assalto al parlamento di un gruppo di fascisti convocati e aizzati esplicitamente dal leader politico sconfitto alle elezioni, proprio per bloccare la ratifica del risultato elettorale, sarebbe il segnale che ci dice «a quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un’alternativa». Un popolo che aveva appena votato a stragrande maggioranza per Joe Biden, con affluenza record, e dunque non si capisce per quale motivo dovrebbe essere rappresentato da qualche centinaio di fascisti (molti per essere più precisi dichiaratamente nazisti, con magliette su cui campeggiava un acronimo che sta per «6 milioni non erano abbastanza», inteso ovviamente come il numero degli ebrei sterminati da Hitler).

Ve lo immaginate cosa avrebbero detto gli antifascisti di allora, se qualche intellettuale di sinistra avesse fatto analoghe considerazioni davanti alla marcia su Roma?

Va detto, a conferma dell’analogia con la marcia su Roma, sia pure in forma di replica farsesca, che la polizia americana è parsa assai sensibile alle diseguaglianze, al senso di esclusione e alle tante altre ragioni degli assalitori. I quali, per parte loro, erano così colpiti da questi problemi da inscenare davanti alle telecamere l’assassinio di George Floyd (noto rentier), con un tizio sdraiato per terra a gridare «non respiro» e l’altro a premergli il ginocchio sul collo.

La controbiezione, ovviamente, è che Barca e gli altri non si riferivano al gruppo di assalitori, ma ai milioni di elettori di Trump. Ma al di là della scarsa congruenza tra la spiegazione, la tempistica e la sostanza delle affermazioni, che ognuno può giudicare, rimane da domandarsi: ma non è quello che avrebbero dovuto dire se avesse vinto Trump, o perlomeno perso di poco? Biden ha stravinto le elezioni, e proprio nel giorno dell’assalto al Congresso aveva vinto persino in Georgia, ottenendo pure la maggioranza nei due rami del parlamento. Se l’analisi del voto americano e dei suoi più profondi significati sociali è la stessa indipendentemente dal fatto che Trump stravinca, pareggi o straperda, è difficile definirla perspicua. Si direbbe più un pregiudizio.

Ma è un pregiudizio che in Italia ha già fatto grossi danni, e potrebbe farne anche di peggiori. Il rischio, insomma, è che il lungo abbraccio con il grillismo produca a sinistra un arretramento politico-culturale più generale, non dico rispetto alla svolta della Bolognina, ma rispetto alla svolta di Salerno.

L’incapacità cioè di mettere in una ragionevole scala di priorità la sopravvivenza dello Stato di diritto e il grado maggiore o minore di progressività fiscale (fermo restando che nella concreta azione di governo, come ha dimostrato Luciano Capone sul Foglio a proposito della «patrimoniale inversa» realizzata nella legge di Bilancio, ci sono molti colpi allo stato di diritto e non c’è nemmeno la progressività fiscale).

Questo problema culturale – di cultura politica diffusa, purtroppo, niente affatto limitata ai soli intellettuali – è anche la spiegazione del perché il Pd abbia potuto tenersi per oltre un anno i decreti Salvini e le riforme Bonafede, e in breve i nove decimi del programma di governo grilloleghista, senza che nel suo elettorato e nemmeno nella sua base militante scoppiasse alcuna rivolta.

So bene che le radici storiche del populismo e del giustizialismo di sinistra sono antiche. Si tratta, da un certo punto di vista, di una malattia ricorrente. Ma fino a qualche anno fa, se non altro nei gruppi dirigenti, c’erano ancora degli anticorpi. Da quando anche gli ultimi difensori del primato della politica, della democrazia parlamentare, del ruolo dei partiti e di una certa cultura istituzionale si sono accodati al grillismo, la situazione si è fatta molto più grave.

In un paese in cui gli anticorpi già non abbondavano – avete mai sentito un giornalista del New York Times o della Cnn rimproverare i trumpiani per essere diventati «un partito come gli altri», aver perso «la purezza delle origini», essersi fatti anche loro «casta», come fanno regolarmente i giornalisti italiani con i grillini? – quest’ultimo cedimento è stato decisivo.

Pertanto è proprio dagli intellettuali, o perlomeno dai pochissimi che alle lusinghe dell’antipolitica e del populismo non hanno mai ceduto, come Fabrizio Barca, che occorre ripartire. Sperando si accorgano presto o tardi che la discussione su come e quanto all’origine del populismo ci siano (anche) ingiustizie e diseguaglianze, più che legittima e più che fondata, per non dire scontata, rischia di diventare una tragica messinscena – e la via più breve verso il massimo dell’ingiustizia e della diseguaglianza – se diviene l’alibi e il nascondiglio dei populisti alla Trump. Prima vengono la difesa della democrazia e dei diritti fondamentali della persona, poi il resto.

E davvero confondere tutto questo con una stanca ripetizione dell’anacronistico dibattito tra fautori della terza via e sostenitori dell’intervento pubblico in economia è completamente fuorviante. Non bisognerebbe mai perdere di vista la sostanziale differenza tra un’insanabile divergenza sulla collocazione ottimale dell’ultima aliquota Irpef e una divergenza altrettanto insanabile sui diritti fondamentali della persona.

Pena il rischio di credersi Nikolaj Lenin e scoprirsi di colpo Nicola Bombacci.

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