Sono un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Timorato, piuttosto moralista, preoccupato e indignato quando è il caso. Eppure, io amo ridere di tutto o quasi. Anzi forse proprio per questo motivo amo chi è capace di dissacrare i miei momenti di indignazione furibonda, chi trova il filo del grottesco in momenti drammatici o che per me lo sono.
Funziona sempre così, mi affaccio al mio balcone singolo sui social e in preda a gravi crisi di perbenismo in grisaglia scrivo cose furenti e solenni, dichiaro guerra a tre o quattro stati canaglia, censisco le scelte politiche di questo e di quello, giudico e censuro e solo quando mi ritengo appagato dai miei strali in bello stile torno in casa, per non prendere freddo (perché si sa, i social sono gelidi).
Allora in genere arrivano quelli bravi, smontano il mio teorema da umarell rabbioso in tre righe e se ne vanno tra gli applausi, anche miei.
In genere.
Ieri sera non è andata così.
Perché ieri sera l’istinto pavloviano dei grandi umoristi si è incartato, sconfitto dall’enormità della cosa che andava in scena a Capitol Hill.
Chiamatelo come volete: golpe, putsch, atto di terrorismo, marcia su Washington.
Stanno già diventando questioni di lana caprina, utili a chi cerca sfumature di gravità diverse di fronte a un atto di monolitica gravità.
Sovversione, milizie armate nel palazzo del Congresso, sub-umanità assortita e ben organizzata per ottenere tre risultati: rinviare la certificazione della vittoria di Biden, pisciare sulle istituzioni democratiche e cercare di arraffare ballot o almeno documenti secretati qua e là.
Quattro morti, molti feriti.
Il tutto in diretta televisiva e sui social.
Già, i social.
Tutti ricordano dov’erano (o pensavano di essere) l’11 settembre 2001.
Tutti hanno una storia buona e in molte di quelle storie buone la parola più usata è fiction.
Sembrava di assistere a una fiction, era come vedere una serie Tv, un documentario, una ricostruzione in grafica.
Nessuno ricorda di averla buttata in caciara, nessuno ricorda la necessità impellente della burletta.
Anzi.
Gente che volava dalle finestre, la morte come binario unico, la disperazione e l’angoscia da un lato, l’esultanza scomposta dall’altro. Non la derisione, il trionfo dell’odio più crasso e violento.
Non una pioggia di meme.
Non c’erano i meme, obietterete.
Il punto è (anche) questo.
Jack Angeli è una persona pericolosa. Fanatico, agitatore del deep web di QAnon e promotore di ogni teoria cospirazionista, gira da tempo vestito da sciamano.
Il costume di scena lo definisce, è parte organica di una personalità complessa e profondamente disturbante.
Fa ridere?
Sì, fa anche ridere. Fa ridere se incrociato alla saga della porchetta, fa meno ridere in un’adunanza neonazista e negazionista, non fa ridere se scorrazza libero per i corridoi del Congresso, accompagnato da altri come lui, spalleggiato dalla scelta di parte dei poliziotti di DC.
Fa ancora meno ridere se accede alle stanze in cui le funzioni democratiche si svolgono abitualmente, se siede in aula e umilia i luoghi delle grandi decisioni e della storia americana.
Dal mio divano tanto perbene questa cosa sembrava chiara.
Se anche il significante era vestito da sciamano, il significato era ed è angosciante.
Una dichiarazione di guerra alle istituzioni democratiche portata da terroristi pericolosi (nelle ore successive sono stati identificati e i loro score criminali non sono quelli dei Village People).
Questo sembrava chiaro a me e lo è diventato sempre più quando sono arrivate le prime immagini della polizia che si scansa, quando sono arrivate le foto del sacco e del vandalismo, quando sono state aggredite le troupe di giornalisti appena fuori dal palazzo.
Ma in quel momento, dal big bang di una follia eversiva, sui social sono iniziate due realtà parallele.
Quella di chi cercava e forniva informazioni e interpretazioni in tempo reale e quella di chi cercava la battuta migliore.
I Village People.
Sì, ma stanno sparando e ci sono dei morti.
Jamiroquai.
Sì, ma hanno trovato un’auto con esplosivo e molotov.
I Village People e Jamiroquai.
Sì, ma hanno appena evacuato la sede del Partito Democratico.
È durata parecchio, qualche ora.
Dice: fanno molto ridere alcuni di quei meme.
Dice: riconoscere il grottesco non significa sminuire la gravità dei fatti.
Dice: in fondo anche Chaplin con il Grande Dittatore.
Dice.
Non riesco più a indignarmi come un tempo, forse anche per merito di quelli bravi, di quelli che fan ridere e mi prendono per il culo quando ci provo.
Resto un rompicoglioni a targhe alterne, ci lavorerò su.
Però una cosa sento di volerla mettere a verbale.
Questa: se nel momento più drammatico della storia americana di questo secolo la prima cosa che ti viene in mente è scrivere una battuta sagace per i tuoi follower, se l’istinto per il meme in contemporanea supera quello per l’ascolto e lo sconcerto, forse c’è qualcosa che non va.
Bisognerebbe scriverci un saggio.
Anzi l’hanno già scritto.