Un documento «eminentemente politico», ancora troppo «vago», «fumoso», «poco credibile», con obiettivi ambiziosi ma «senza indicare gli strumenti per realizzarli» e i «risultati attesi». Dopo aver letto le 172 pagine del Recovery Plan “Next Generation Italia”, molti economisti e giuristi non hanno creduto ai loro occhi.
«Così com’è la Commissione europea rimanderà indietro il documento», avverte Tommaso Monacelli, ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano. «È come se la maestra avesse detto di fare i compiti di italiano a pagina 115 e noi abbiamo fatto i compiti di inglese a pagina 90. Non abbiamo capito cos’è il Recovery Plan, o facciamo finta di non capire. Questo è un documento di equilibrismo politico fatto per chiudere la crisi, distribuendo i soldi un po’ qui e un po’ lì, tipo Italia anni Ottanta. D’altronde chi è che non è d’accordo a potenziare la green economy, la parità di genere o la digitalizzazione della pubblica amministrazione? Ma non c’è traccia alcuna di competenza economica».
A lasciare perplessi è l’assenza di un piano operativo dettagliato. Più che il documento finale per il rilancio italiano post-Covid, il testo arrivato in Consiglio dei ministri «sembra giusto una bozza da far votare al Parlamento, destinata poi a essere del tutto modificata e riscritta», commentano in tanti.
«Il testo è migliorato rispetto alla prima bozza e soprattutto si è più capito che il punto centrale del Next Generation Eu non sono i soldi, ma le riforme con i soldi», spiega Andrea Garnero, economista dell’Ocse. Ma ancora non ci siamo. Anche perché, fa notare Garnero, «non viene specificata quale sarà la governance del piano. Il governo scrive che presenterà al Parlamento un modello di governance, ma questo è “il” punto centrale. Non è che in Italia finora siano mancate le idee su cosa fare: è che per mille motivi non siamo riusciti a realizzarle. Quindi finché la governance non è chiarita, e soprattutto non è chiarito cosa cambia rispetto al passato, è difficile giudicare quanto del piano possa diventare realtà».
Al di là del restyling del documento che va incontro alle richieste e alle critiche dei partiti di maggioranza nel pieno della crisi di governo, è l’impalcatura che non convince gli esperti. «Non c’è traccia a riferimenti alla letteratura scientifica per sostenere ciò che viene scritto», dice Monacelli. «Non basta scrivere che vogliamo raggiungere l’inclusione di genere e su questa mettiamo tot miliardi. La Commissione vorrà sapere come sarà declinato il progetto, se verranno creati nuovi asili nido, quanti, dove, con che orizzonte temporale. E dovremo specificare che con la costruzione di questi asili vogliamo raggiungere un certo incremento dell’occupazione femminile entro il 2026. Se avremo costruito asili, ma non avremo raggiunto obiettivi specificati nel piano, i soldi la Commissione non li darà».
La Commissione europea, nelle sue linee guida per la stesura del piano, ha raccomandato di indicare progetti specifici, modalità di realizzazione, tempi e risultati attesi. Nel documento non si trova niente di tutto questo. Lo fanno notare anche dal Forum Disuguaglianze e Diversità, che ha già inviato al presidente del Consiglio un testo in cui si analizza punto per punto il Recovery Plan. «Colmare l’attuale grave lacuna per cui la maggioranza dei progetti è priva dell’indicazione dei “risultati attesi” (in termini dei benefici per la popolazione) o addirittura indica al loro posto le “realizzazioni” (numero di progetti fatti, di imprese incentivate, di aderenti, di infrastrutture completate)», raccomandano. «Assente tale chiarimento, l’utilità dei progetti non è giudicabile, né l’Unione europea potrà accettarli».
«Tutto deve essere accompagnato da un monitoraggio e da una valutazione», avverte Garnero. «Una bella cosa sarebbe che una parte di questi fondi venisse destinata alle valutazioni dati alla mano. Qualunque azione del governo dovrebbe avere una piccola percentuale per accompagnare il monitoraggio».
I sindacati, critici per il mancato coinvolgimento nella stesura del documento, si sono presi la giornata di ieri per esaminare il testo in attesa del consiglio dei ministri. Ma i primi commenti critici trapelano già dalla Cisl. «Delle bozze che circolano in queste ore apprezziamo l’incremento delle dotazioni destinate a lavoro e investimenti. Tuttavia rimangono forti criticità nel metodo di elaborazione dei dossier e, soprattutto, nella governance che si vuole dare all’utilizzo di queste risorse e al processo di individuazione, implementazione e monitoraggio dei progetti», dicono.
Nel capitolo lavoro, ad esempio, ci sono due titoli immancabili: “politiche attive” e “formazione”. Poi, niente di più. «Una lista della spesa, una “to do list”, ma non c’è nulla di operativo», commenta Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro alla Bocconi ed ex presidente di Anpal. «Come saranno fatte queste cose, quando e con quali priorità non lo sappiamo. E questo fa pensare che ci vorranno tempi lunghissimi e che è ancora tutto da costruire». Quella che abbiamo tra le mani, spiega il professore, «è una bozza quadro che indica i capitoli di spesa, ma manca tutto il meccanismo di funzionamento della macchina nel suo complesso».
Anche perché, aggiunge Garnero, «per le politiche attive e la formazione il problema in Italia non è mai stato quello dei soldi. È che per molti motivi, che nel documento non sono neanche menzionati, queste cose non funzionano».
Nel testo trovano spazio invece progetti di cui sarà difficile provare il ritorno in termini di crescita economica, come chiedono da Bruxelles. Dal recupero della coesione sociale nei borghi al piano nazionale delle ciclovie. «Ci sono diversi obiettivi il cui ritorno non è quantificabile e come tale non possono rientrare nel Recovery Plan», spiega Monacelli. Che parla addirittura di «fantaeconomia» laddove per gli investimenti pubblici si dice che ci sarà un moltiplicatore maggiore di 2 «senza riportare alcuna evidenza scientifica» a riguardo.
«È il peggio della politica economica italiana», incalza l’economista. «Senza la consapevolezza del fatto che raggiungere alcuni obiettivi può implicare l’impossibilità di raggiungerne altri. Ad esempio, l’industria 4.0 e il rafforzamento della robotizzazione dell’industria può voler dire maggior disoccupazione».
Il lavorìo, insomma, è tutt’altro che finito con l’approvazione in consiglio dei ministri. Nei prossimi mesi, magari sotto l’occhio vigile del personale della Commissione europea, bisognerà mettersi a scrivere leggi, decreti e atti amministrativi per trasformare i principi del piano in politiche economiche vere e proprie. Ma, anticipano in tanti, «ci sono progetti che potrebbero non vedere mai la luce».