All’inizio era una suggestione sulla bocca di tutti i commentatori da bar: la SARS-CoV-2 è stato un incidente di laboratorio sfuggito volontariamente o meno dalle mani dei virologi di Wuhan. Poi l’epidemia cinese è diventata una pandemia. E la priorità è diventata affrontare l’emergenza. L’aumento dei contagi, il riempimento delle terapie intensive, il lockdown e la crisi economica hanno fatto passare in secondo piano la questione della vera origine del virus, diventata quasi un tabù. L’ipotesi dell’errore da laboratorio è stata etichettata dall’opinione pubblica come l’ennesima teoria del complotto, scegliendo di escludere a priori la possibilità che tutto questo sia stato un errore umano. A nostro rischio e pericolo.
A riprendere l’interrogativo lasciato in sospeso sull’origine del virus ci ha pensato lo scrittore e saggista Nicholson Baker in un lungo articolo di copertina del New York Magazine “The Lab-Leak Hypothesis. Per tre mesi Baker ha intervistato 25 esperti analizzando la dinamica comune delle perdite da laboratorio e studiando la storia della “ricerca del guadagno di funzione” (gain-of-function research). Tradotto: un ramo della ricerca scientifica che studia i virus pericolosi e crea ceppi di malattie nuovi, più virulenti o più infettivi nel tentativo di prevedere e difendersi dalle minacce che potrebbero presumibilmente sorgere in natura.
Baker si è chiesto se il codice genetico della SARS-CoV-2 possa dirci qualcosa di più sulla sua provenienza e quanto sia stato rischioso in questi anni condurre la ricerca sulle malattie infettive. Per farlo è partito dal principio base del Rasoio di Occam: ovvero per risolvere un problema, a parità di risultati, bisogna partire dalla soluzione più semplice.
E la soluzione più semplice, secondo Baker è questa: «È stato un incidente Un virus ha trascorso un po ’di tempo in un laboratorio e alla fine è uscito. SARS-CoV-2, il virus che ha causato il Covid-19, ha iniziato la sua esistenza all’interno di un pipistrello, poi ha imparato a infettare le persone in un pozzo di miniera claustrofobica, e poi è stato reso più contagioso in uno o più laboratori, forse come parte dello sforzo ben intenzionato ma rischioso di uno scienziato di creare un vaccino ad ampio spettro».
Secondo Baker avrebbe molto più senso questa ipotesi rispetto alla teoria del coronavirus nato naturalmente (o meglio, zoonoticamente) in modo spontaneo da animali senza essere stato precedentemente studiato, o ibridato, o dosato attraverso colture cellulari, e lavorato da professionisti qualificati. Sarebbe poco credibile la tesi finora dominante che un pipistrello col coronavirus abbia infettato un’ altra creatura (alcuni dicono un pangolino) e che questa creatura già malata di una diversa malattia di coronavirus abbia a sua volta fatto da shaker vivente unendo questi due ceppi in una nuova malattia.
No, «la SARS-2 non è stata progettata come un’arma biologica. Ma è stato, credo, progettata», sostiene Baker. D’altronde il virus che finora ha causato 80 milioni di contagiati nel mondo secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità con molta probabilità si è originato da pipistrelli (due coronavirus dei pipistrelli condividono l’88% della sequenza genetica con quella del SARS-CoV2) sia nato nell’unica città nel mondo con un laboratorio specializzato nello studio dei virus legati ai pipistrelli finanziato per anni dal governo statunitense.«Quante potevano essere le probabilità?», si chiede Baker.
A Wuhan di laboratori specializzati di virologia ad alta sicurezza ce ne sono tre, uno dei quali conserva nei suoi congelatori l’inventario più completo al mondo dei campionamenti di virus legati al pipistrello. «Un incidente di laboratorio – una fiaschetta caduta, una puntura d’ago, un morso di topo, una bottiglia etichettata in modo illeggibile – è apolitico. Proporre che qualcosa di sfortunato sia accaduto durante un esperimento scientifico a Wuhan non è una teoria del complotto. È solo una teoria. Merita attenzione, credo, insieme ad altri tentativi ragionati per spiegare l’origine della attuale catastrofe», spiega Baker.
Da questo punto di vista sembra meno solida una delle altre ipotesi circolate in questi mesi. Ovvero che due coronavirus spontaneamente si siano combinati in un pipistrello che ha trasmesso la malattia ad altri pipistrelli e poi a loro volta a un uomo in un ambiente rurale. E che questo essere umano, da solo, abbia sviluppato la malattia senza sintomi respiratori per mesi e anni fino a quando la malattia si è evoluta fino a diventare virulenta e altamente trasmissibile. Non a caso notata la prima volta proprio a Wuhan
Bisogna anche tenere a mente che in questi decenni i virologi hanno compiuto molti esperimenti di trasmutazione genetica sviluppando «metodi ingegnosi di accelerazione e ricombinazione evolutiva e hanno imparato come ingannare i virus, i coronavirus in particolare, quei boli di pelo appuntiti di proteine che ora conosciamo così bene, per spostarsi rapidamente da una specie di animale a un altro o da un tipo di coltura cellulare a un altro. Hanno realizzato macchine che mescolano il codice virale per le malattie dei pipistrelli con il codice per le malattie umane, come la SARS (la sindrome respiratoria acuta grave comparsa in Cina nel 2003)».
Grandi scoperte scientifiche in alcuni casi accompagnati da incidenti di laboratorio. Sono stati pochi e quasi mai conosciuti al grand pubblico, ma ci sono stati. Baker ne fa molti. «Nel 1977, un’epidemia mondiale di influenza A in Russia e Cina fu rintracciata su un campione di un ceppo americano di influenza conservato in un congelatore da laboratorio dal 1950. Nel 1978, un ceppo ibrido di vaiolo ha ucciso un fotografo medico in un laboratorio a Birmingham, nel 2007, l’afta epizootica è trapelata da un tubo di scarico difettoso presso l’Institute for Animal Health nel Surrey. Dal 2008 al 2021, più di 1.100 incidenti di laboratorio che coinvolgono batteri, virus e tossine che pongono rischi significativi o di bioterrorismo per le persone e l’agricoltura sono stati segnalati alle autorità di regolamentazione federali degli Stati Uniti».
Non solo, ripetutamente alcuni autorevoli esponenti della comunità scientifica hanno avvertito dei rischi dalla creazione intenzionale di nuovi microbi che combinano la virulenza con una maggiore trasmissibilità. «Nel 2012, nel Bulletin of the Atomic Scientists, Lynn Klotz ha avvertito che c’era un’80% di possibilità, dato il numero di laboratori che gestivano allora i virulenti viro-varietali, che si sarebbe verificata una fuga di un potenziale patogeno pandemico nei prossimi 12 anni». Due anni dopo, nel 2014 due esperti di malattie infettive, Marc Lipsitch e Thomas Inglesby, hanno dichiarato che non c’era ancora stato un trasparente e rigoroso processo di valutazione del rischio per questo tipo di ricerca.
Forse non sapremo mai con certezza dove si sia nato davvero la SARS-CoV-2. Non ci sono state fughe di notizie, testimoni scomparsi o prove compromettenti ma l’ipotesi è tutt’altro che impossibile da escludere.
Il team di verifica dei fatti di New York Magazine ha passato un mese a esaminare la storia. Baker e la rivista ha condiviso le bozze del suo lungo saggio con diversi scienziati, inclusi due biologi molecolari che credono che SARS-CoV-2 sia un virus zoonotico, che hanno tutti fornito un feedback critico per garantire l’accuratezza del lavoro.
Secondo Baker la cosa più responsabile da fare è chiedersi: quale grado di rischio dovremmo permettere a questi scienziati di correre in nome della salvezza dell’umanità? «Forse è il caso di smettere di cercare nuove malattie esotiche in natura, rispedirle ai laboratori e collegare a caldo i loro genomi per dimostrare quanto potrebbero diventare pericolose per la vita umana»