C’è chi chiede riaperture (in sicurezza) alla sera, chi vorrebbe soltanto «tornare a lavorare» (in sicurezza) e chi invece ha già pronta una lista di interventi che considera «necessari» perché l’Italia «non perda competitività».
Il mondo della cultura, a partire dalle università e dai teatri, fino all’industria enogastronomica, ha cominciato a presentare una lista di domande, proposte, cahier de doléances e desideri da sottoporre al futuro presidente del Consiglio Mario Draghi.
Non si è ancora insediato, non ha ancora definito una sintesi tra partiti e programmi (almeno: non la ha ancora rivelata) ma le questioni da risolvere, eredità dell’opacità con cui si muoveva il governo precedente, sono tante.
Prima di tutto le aperture dei luoghi di cultura e svago. Con il ritorno in zona gialla di gran parte del Paese tornano al pettine nodi rimandati da mesi: teatri, musei, ristoranti sono sottoposti a trattamenti contraddittori e a volte paradossali, un’incrostazione di provvedimenti vecchi di mesi e compromessi al ribasso.
«Noi siamo gli ultimi rimasti a dover tenere chiuso», dice Ruth Andrée Shammah, a capo del Teatro Parenti di Milano. «Abbiamo dimostrato che il teatro è uno dei luoghi più sicuri che ci sia, dove i contagi sono stati pochissimi. Del resto sono tutti con mascherina». Ma tenerlo chiuso «è pericoloso perché fa passare due concetti: che il teatro sia un luogo superfluo, di cui si può fare a meno. E che il teatro sia un posto pericoloso».
La richiesta è semplice: «Riaprire. In sicurezza». O meglio: «Che chi vuole possa riaprire». Tra le istanze inascoltate di quel mondo («che vorrei raccogliere tutte, perché sollevano interrogativi sulle nostre condizioni») c’è il caso «degli artisti di strada, che a Milano hanno sospeso il loro lavoro durante gli scorsi mesi».
Chiedono un incontro con le istituzioni locali per trovare una soluzione: vorrebbero potersi esibire (va ricordato: vivono di questi spettacoli estemporanei) ma nessuno risponde al loro appello. «Il problema sarebbe il rischio di assembramenti», commenta sconsolata.
Gli artisti di strada («va ricordato anche questo: sono artisti veri, alcuni anche bravissimi») a Torino possono esibirsi anche in zona arancione. A Milano nemmeno in zona gialla. Perché?
Non è un problema che riguarda in via diretta il presidente del Consiglio, ma il tema generale sì. Come spiega Patrizia Asproni, presidente di Confcultura e a capo del museo Marino Marini di Firenze, l’unico che può tenere aperto anche durante il weekend (il trucco è che al suo interno ospita la Cappella Rucellai, tuttora consacrata), il punto è tutto «nella mentalità burocratica: che non spiega nulla alle persone e porta soltanto a una superfetazione normativa». Una cifra dominante della passata stagione di governo.
In questo senso il presidente Draghi promette di essere una soluzione. «Si è più volte espresso contro questo genere di meccanismi. Da lui ci si aspetta più semplificazione. Una trasformazione (nemmeno una riforma: serve di più) necessaria». Qui sta la radice della chiusura dei musei nel weekend e perfino il blocco agli artisti di strada.
«Non c’è ratio. La testa di chi ha pensato a questi provvedimenti è ancora bloccata all’overturismo del 2019, alle resse fuori, alle code. Ora non c’è più niente di tutto questo». Gallerie e sale aprono solo durante la settimana, quando i visitatori sono pochissimi. L’obiettivo sarebbe tenere aperto, in sicurezza, anche nei giorni festivi. «È tutto contingentato, non si vedono rischi», continua Asproni.
Si pensi proprio al caso del museo Marino Marini: qui si crea la situazione fantozziana per cui «le persone nel weekend possono entrare nell’edificio (una chiesa sconsacrata) per accedere alla Cappella Rucellai, ma non possono superare la linea di demarcazione da dove comincia il museo. “Posso fare un passo in più e vedere quell’opera?” chiedono. “No, non si può”».
Sono contraddizioni strambe, garbugli giuridici e comportamentali che portano confusione e scetticismo. Perché i ristoranti – si chiedono – non possono aprire anche la sera?
«Noi», spiega Filippo Saporito, chef e presidente di JRE (Jeunes Restaurateurs d’Europe), «siamo sempre stati precisi e organizzati nelle nostre richieste». E continuano a esserlo: al primo posto, dicono, «serve sostegno». La crisi ha colpito in modo pesante e, nonostante le riaperture della zona gialla, molti ristoratori «rischiano di non riaprire più. Gli aiuti sono arrivati, ma meno di quanto ci vuole e anche in ritardo».
Resta il fatto che, alla luce della situazione pandemica, «la cosa più importante per noi, più che riaprire la sera, è proprio avere risposte certe». Sapere se si chiuderà, se si starà aperti, se ci sono regole da rispettare: e quali e quante. Tutte cose che si perdevano nel rimpallo tra governo, Cts, ministero e regioni. «Importante poi è la certezza che chi trasgredisce le regole sia punito, perché creano una cattiva reputazione per tutto il settore».
Del resto la JRE riunisce il fine dining, «che già per sua natura impone dei distanziamenti e prevede spazi ampi tra i tavoli», ma il codice ATECO riunisce tutte le diverse forme di ristorazione, rapide o lente, eleganti o popolari, bar e osterie. Al momento la battaglia per la riapertura è sentita come unitaria e solidale. Finita la pandemia, però, non pochi pensano a distinzioni tra diverse categorie di ristorazione. «Si è fatta di tutta un’erba un fascio e in queste situazioni non va bene».
Dal fronte universitario, invece, il nuovo governo viene accolto con un decalogo di «riforme necessarie» per «semplificare, liberalizzare e investire». Lo hanno stilato 300 accademici che aderiscono all’iniziativa del think tank “Lettera 150”, in cui figurano professori dei più importanti atenei italiani. L’Italia, sostengono, riparte dalla ricerca (e chi dà loro torto?).
E allora al punto uno si chiede «un aumento significativo dei fondi destinati all’università e alla ricerca», cui segue «una riforma avanzata del dottorato, delle lauree professionalizzanti e dell’istruzione professionale superiore» e al terzo posto una «decisa semplificazione delle procedure, con la cancellazione di lacci e lacciuoli che imbrigliano le attività di ricerca».
Il catalogo continua e chiede più autonomia, una riforma dei meccanismi di valutazione degli atenei e una riforma del reclutamento dei professori, insistendo (punto sette) su una maggiore «internazionalizzazione del sistema». Agli ultimi tre punti figurano «un forte investimento nel trasferimento tecnologico per incoraggiare la produzione di brevetti», insieme a «un deciso incremento dei posti da professore» e, infine, «la valorizzazione dei dipartimenti più innovativi». Vaste programme, perfino per Draghi.
Sul nuovo presidente insomma incombono compiti importanti. Quello che è sicuro – o almeno, quello che tutti si aspettano – è che le risposte, quando verranno, saranno chiare e serie. E motivate.
Sono tutti d’accordo: è meno grave tenere chiuso che rimanere nell’incertezza. Del resto, tra zone colorate e aperture di cui nessuno si prende la responsabilità, rimpalli e rinvii, si finisce in un limbo che rallenta le operazioni, blocca i programmi e impedisce di pensare in avanti. Che è proprio quello che non serve.