In Italia, perlomeno dal punto di vista politico, assistiamo con sollievo ai primi segnali di ritorno alla normalità, a cominciare dal processo di disintegrazione del Movimento 5 stelle, ormai sempre più simile a uno stato fallito, diviso in bande rivali armate fino ai denti l’una contro l’altra, verosimilmente destinate ad annientarsi reciprocamente prima delle prossime elezioni. E tutto questo mentre la Lega, movimento politico nato secessionista e finito sovranista, prosegue la sua parabola, unica al mondo, con un’ulteriore svolta europeista.
Per farla breve, il Parlamento eletto nel 2018, in cui populisti e sovranisti erano più o meno al 70 per cento, e minacciavano di portarci fuori dall’euro, verso una democrazia illiberale in stile ungherese, con Viktor Orbán come modello, è incredibilmente finito a Dogliani. Con Luigi Di Maio al posto di Luigi Einaudi, a spiegarci – vedi la sua intervista di ieri a Repubblica – l’evoluzione moderata, liberale, europeista e atlantista del Movimento 5 stelle, che obiettivamente non è male come evoluzione, per un partito nato estremista, illiberale, no euro, putiniano, pro-Maduro e filo-cinese (ammesso che sopravviva). E con Matteo Salvini a dire praticamente lo stesso, persino sui migranti (su cui ora gli va benissimo la legislazione europea). Del resto, dopo la sconfitta di Donald Trump negli Stati Uniti, la pandemia populista appare in regressione in tutto il pianeta. Il problema, anche qui, sono le varianti.
La più insidiosa, almeno in Italia, è quella che potremmo chiamare la variante montessoriana. Di fronte ai nostri Jake Angeli ansiosi di assaltare il parlamento, infatti, siamo pieni di raffinati pedagoghi che invitano a non demonizzarli, anzi proprio a lasciarli fare, perché stanno maturando, non bisogna traumatizzarli, sono nella fase dell’evoluzione.
È il ritornello in base al quale per oltre un anno ci siamo dovuti tenere gli orrendi decreti sicurezza salviniani e ogni altra porcheria partorita dal primo governo Conte, nella convinzione che altrimenti i cinquestelle avrebbero fatto muro, avrebbero smesso di evolvere e piuttosto che accettare una minima correzione di rotta in direzione non dico progressista, ma semplicemente un filo più moderata e liberale, ci avrebbero portati dritti al voto, consegnando il governo a Salvini. È finita che pur di non tornare al voto non solo sono diventati moderati e liberali, ma si sono ripresi pure Salvini al governo (e anche Silvio Berlusconi, se è per quello). A dimostrazione di quanto l’approccio montessoriano ai cinquestelle fosse del tutto infondato, oltre che specchio di un atteggiamento di paternalistica superiorità infinitamente più sprezzante e snob di quello mostrato da chi li critica apertamente e senza tanti giri di parole.
Sta di fatto che da due anni i fautori dell’alleanza strategica con i cinquestelle hanno inchiodato l’intera sinistra a questa assurda posizione da insegnante di sostegno di un altro partito. La scoperta più sorprendente, tuttavia, è che tra i fautori dell’alleanza strategica non c’è mai stato Goffredo Bettini, stando almeno a quanto lui stesso ha scritto ieri in una lettera al Riformista.
Riporto testualmente: «Nel corso del governo Conte 2 non ho mai parlato di una alleanza strutturale e strategica con il Movimento 5 stelle. Anzi, non ho mai capito bene cosa questi termini volessero significare. Ho detto, al contrario, che occorreva una intesa politica più forte tra il Pd e i 5 stelle in quanto se si intende governare insieme fino alla fine della Legislatura come era stato dichiarato, avendo in mezzo anche l’elezione del Presidente della Repubblica, occorre non convivere da nemici o avversari ma in un clima di rafforzata collaborazione». Dunque non «alleanza strutturale», bensì «intesa politica più forte».
Quanto all’incresciosa vicenda dell’intergruppo Pd-M5s-Leu, precisa Bettini, è stato promosso dal capogruppo Andrea Marcucci «credo per prevalenti ragioni d’aula, che non hanno niente a che fare con le future strategie del Partito democratico». Niente a che fare.
Bettini omette però di ricordare come il giorno stesso Giuseppe Conte in persona fosse corso a dichiarare alle agenzie che si trattava di un’iniziativa «giusta e opportuna» per rilanciare «l’esperienza positiva di governo che si è appena conclusa», essendo «ancora più urgente l’esigenza di costruire spazi e percorsi di riflessione che valorizzino il lavoro comune già svolto». Seguito peraltro da Roberto Speranza («La nascita dell’intergruppo parlamentare Leu-Pd-M5s è un’ottima notizia e indica la strada giusta per coltivare un’idea di Paese che metta al centro la difesa dei beni pubblici fondamentali») e anche da un certo Nicola Zingaretti («È una cosa molto importante la scelta che hanno fatto oggi i senatori, dentro questa maggioranza così ampia, di offrire al presidente Draghi un’area omogenea per aiutarlo a raggiungere i suoi obiettivi su un asse politico dell’europeismo che altrimenti sarebbe stato più debole»).
Casi di omonimia a parte, naturalmente sempre possibili, è evidente che qualcosa sta cambiando, tanto più se il Bettini che oggi dice di non aver mai capito cosa volesse significare l’espressione «alleanza strategica» con il Movimento 5 stelle è lo stesso che il 6 febbraio, commentando il discorso di Conte in piazza davanti a Palazzo Chigi, diceva a Radio24: «Conte sarà il padre nobile dell’alleanza, che insieme a lui si è costruita e ha progredito».
In particolare, a tale proposito, nella sua lettera di ieri al Riformista afferma: «L’attuale discussione sull’alleanza tra Pd e M5S riferita al futuro ha un sapore, per me, difficilmente sopportabile, di posizionamento interno al Pd, in vista del Congresso. Nessuno può dire come evolverà la dinamica lacerante nel movimento di Grillo. Cosa sarà tra qualche mese, tra un anno, nel tempo che verrà il movimento 5S, né come il patrimonio di credibilità che Conte continua ad avere sarà speso da egli nella battaglia politica e democratica». Ricapitolando: dice Bettini che oggi nessuno può dire quello che diceva lui fino a ieri. Chiaro?
A me, sinceramente, non tanto. L’unica cosa che mi sembra di capire è che di questo passo, quando si aprirà il congresso del Pd, il solo teorico dell’alleanza con i cinquestelle risulterà Marcucci. Meglio così.
Attenzione però a non lasciarsi ingannare da dati parziali e oscillazioni giornaliere. L’aspetto più problematico della variante montessoriana, che rende necessario un costante sforzo per sequenziarla adeguatamente, è infatti la sua continua capacità di mutazione. Non è il momento di abbassare la guardia.