È la seconda volta che Joe Biden entra alla Casa Bianca durante una crisi economica, e quella in corso è la seconda crisi economica degli ultimi vent’anni. Quelli gentili direbbero che ci vuole talento, gli altri che ci vuole sfiga.
Il 14 gennaio il 46esimo presidente degli Stati Uniti ha presentato la sua strategia per affrontare la recessione causata dal Covid, un maxi-pacchetto di aiuti immediati per 1.900 miliardi di dollari. Il piano Biden vale circa il 9% del Pil pre-crisi e quasi il doppio del pacchetto di spesa di Barack Obama nel 2009. L’iniezione seguirebbe i 900 miliardi di dollari già approvati lo scorso dicembre e un piano da 3.000 miliardi varato all’inizio della pandemia.
La prospettiva di un bazooka di spesa ha dato slancio ai tassi di interesse sui Treasury, i buoni del tesoro americani, tanto che lunedì il rendimento dei titoli di stato a 30 anni ha sfiorato il 2% per la prima volta dallo scorso febbraio (mentre gli stessi titoli dello stato tedesco rendono poco più dello 0%). E i commenti del nuovo segretario al Tesoro Janet Yellen non sono stati da meno: l’ex presidente della Federal Reserve ha dichiarato alla Cnn di aspettarsi «piena occupazione entro il prossimo anno», ma solo se il nuovo pacchetto di stimoli otterrà il disco verde dal Congresso.
Secondo gli esperti, il rialzo dei titoli di stato statunitensi manda un segnale inequivocabile a chi abbia gli occhi per vederlo: le aspettative di inflazione degli investitori negli Stati Uniti si stanno rafforzando.
È proprio qui che si innesta l’acceso dibattito in corso negli ultimi giorni tra alcuni economisti d’oltreoceano, consumato a colpi di tweet, editoriali e persino dal leggio della Casa Bianca. Il cuore dello scontro sta nel volume del pacchetto di stimoli. È davvero necessaria una spesa di quell’entità per rinfrancare un’economia fiaccata dalla crisi e riportare il Paese su un sentiero di crescita?
Non lo è secondo Larry Summers, ex segretario al Tesoro sotto Bill Clinton e consigliere economico di Obama. E anzi, un piano di tale portata potrebbe generare «pressioni inflazionistiche come non se ne vedono da una generazione, con effetti sul valore del dollaro e sulla stabilità finanziaria».
A dargli manforte è arrivato su Twitter anche Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale: «Il pacchetto potrebbe surriscaldare l’economia al punto da diventare controproducente», mentre la protezione di lavoratori e imprese potrebbe essere salvaguardata anche con una cifra inferiore.
Non stiamo parlando di sostenitori dell’austerità, come si potrebbe a prima vista ritenere. «Sono a favore degli stimoli» ha ripetuto Summers al Financial Times, «e sono fermamente convinto che i pericoli di fare troppo poco siano maggiori dei pericoli di fare troppo».
Ma in questo caso, continua, la sproporzione è evidente. La dimensione totale del piano supererebbe infatti di gran lunga la maggior parte delle stime sul cosiddetto “output gap”, ossia la distanza della crescita dell’economia americana rispetto al pieno sviluppo del suo potenziale economico: una specie di stato ideale in cui tutti quelli che vogliono lavorare sono in grado di trovare un lavoro e ogni fabbrica raggiunge la massima capacità.
In teoria, se il governo inietta troppi soldi nell’economia, genererà una crescita al di sopra della produzione potenziale, una condizione impossibile da sostenere a lungo. I lavoratori potrebbero fare gli straordinari e le fabbriche produrre a stretto regime per un po’, ma a un certo punto i lavoratori avrebbero bisogno di riposo e le macchine di essere spente per la manutenzione.
Se poi il denaro che fluttua nell’economia fosse superiore rispetto all’offerta di beni e servizi, il risultato non sarebbe una maggiore prosperità, quanto piuttosto un aumento sostenuto dei prezzi.
Perché anche la moneta risponde alle regole del mercato: se c’è più offerta rispetto alla domanda il valore diminuisce, e dunque i prezzi salgono. Ed eccoci alle famose «pressioni inflazionistiche».
L’opinione di Summers e Blanchard, sia chiaro, non è condivisa da tutti. Le critiche partono dal fatto che l’output gap è un concetto teorico, impossibile da quantificare con precisione. Voi sapreste misurare effettivamente quanto potreste lavorare ogni giorno, rispetto a quanto già non fate? Immaginate ora di moltiplicare questa stima per centinaia di milioni di persone, e avete colto il problema.
Senza contare che le argomentazioni si basano su una rappresentazione dell’economia simile a un impianto idraulico, in cui un ingegnere esperto può ottenere un risultato prevedibile premendo i pulsanti giusti. E in macroeconomia, specialmente durante la pandemia del secolo, le cose potrebbero non essere così semplici.
Questa disputa intellettuale giunge in un momento critico: con il Senato perfettamente spaccato, un singolo senatore democratico che trovi convincenti gli argomenti di Summers e Blanchard potrebbe chiedere al presidente Biden di ridimensionare le sue ambizioni, con conseguenze per la sua presidenza e per l’economia americana.
«Che il piano di stimoli possa determinare un incremento dell’inflazione e dei tassi di interesse già lo vediamo» commenta a Linkiesta Tommaso Monacelli, professore ordinario di macroeconomia all’Università Bocconi.
Ma oltre all’ammontare conta anche l’architettura del pacchetto: «Meglio allora evitare i trasferimenti a pioggia e indirizzare i sussidi alle categorie con una propensione al consumo più elevata (non i ricchi dunque, ndr), a chi ha perso il lavoro e ha risparmiato a scopo precauzionale». Il motivo è semplice: queste categorie spenderebbero di più rispetto ai più abbienti e l’effetto moltiplicatore sul Pil sarebbe più consistente.
Del resto, con trasferimenti non mirati anche i mercati finanziari rischierebbero di surriscaldarsi. Un’economia inondata di liquidità potrebbe far schizzare le quotazioni dei titoli oltre la soglia di guardia, allargando le maglie del divario (già allarmante) tra le piazze finanziarie e l’economia reale. I brividi provocati dagli investitori “redditers” sul titolo di GameStop stanno lì a ricordarci cosa succede quando le persone non possono spendere il proprio reddito in consumi nella loro vita offline.
Dal canto suo l’amministrazione Biden non sembra preoccupata. Pur ammettendo la possibilità di un aumento dell’inflazione lungo la via, si tratta di un rischio calcolato e gestibile e «abbiamo gli strumenti per affrontare quel rischio se si materializzerà», così ha detto Janet Yellen.
Ed è d’accordo anche Tommaso Monacelli: «La deflazione e la trappola della liquidità sono bestie più difficili da combattere. Quando si tratta invece di alzare i tassi di interesse per calmierare l’inflazione non c’è un limite».
In effetti le banche centrali di tutto il mondo sanno come ridurre i prezzi: basta alzare il tasso di interesse e dunque il costo del denaro. Mentre contro la deflazione i governatori combattono da almeno dieci anni, senza grande successo.
La Federal Reserve sarà perlopiù incline a ignorare uno shock una tantum di inflazione post-pandemica, come ha ricordato il presidente Jerome Powell in una recente conferenza stampa. Risale infatti alla scorsa estate la revisione della strategia della Fed, che non punta più a ottenere un’inflazione del 2%, ma pari in media al 2% nel tempo. Un approccio flessibile dunque, tollerante verso scostamenti dal target sia al ribasso, sia – e qui casca l’asino – al rialzo.
Per quanto tempo durerà questa tolleranza verso l’alto non è dato saperlo, perché non esiste un’àncora numerica. E la Fed sta inciampando su sé stessa per segnalare che la politica monetaria rimarrà accomodante e che il momento di alzare i tassi è “non presto” (parole di Powell).
«Sarà una decisione discrezionale» spiega Monacelli, «se la pressione inflazionistica dovesse sfuggire di mano la Fed sarà costretta a tirare i freni. E quello sarà un test rivelatorio sul funzionamento del nuovo regime». Un caso di scuola, insomma. Che provocherà certamente un po’ di mal di stomaco ai mercati finanziari.
In ogni caso, nessuno sa davvero quanto velocemente l’economia possa crescere senza innescare inflazione. Certo è che un piano di aiuti da 1.900 miliardi di dollari mette senz’altro alla prova i limiti di velocità.
Peraltro, a farne le spese potrebbero non essere solo gli Stati Uniti. In uno scenario in cui l’inflazione americana e i tassi di interesse sui Treasury aumentassero – e sta già accadendo – i tassi sui bond governativi comincerebbero a salire anche nel resto del mondo, Europa compresa.
I Bund tedeschi o i Btp italiani per rimanere appetibili dovrebbero infatti a loro volta essere collocati a tassi più alti (anche se questo rialzo sarebbe in parte compensato dall’apprezzamento del dollaro e dal conseguente indebolimento dell’euro).
In un’Unione europea non ancora in forze dopo la pandemia, i paesi ad alto debito come l’Italia si ritroverebbero a quel punto su una china scivolosa. A meno di una radicale inversione sul fronte della crescita (ma il Next Generation Eu è un piano di lungo periodo, non un piano shock), il nostro rapporto debito-Pil è destinato a salire. E con un rapporto al 170% come quello che ci si attende nei prossimi anni, anche una minima variazione al rialzo dei tassi di interesse sui titoli di stato potrebbe generare forti difficoltà per la sostenibilità del debito.
Una nuova prova per la Banca centrale europea, costretta a scegliere se piegarsi ai dettami della politica fiscale comprimendo lo spread (rischiando di perdere la propria indipendenza e credibilità) oppure lasciare annegare un paese sull’orlo del default.
La soluzione? «Fare politiche fiscali che siano sì espansive, ma orientate alla crescita» commenta ancora Monacelli, «il sentiero diventa sempre più stretto e l’Italia non può permettersi di buttare soldi al vento».
Per fortuna, di questo il presidente incaricato Mario Draghi è perfettamente consapevole.