Draghi e lucertoleLa politica economica degli euroscettici, eurofobici ed eurofili

Un ripasso delle strategie italiane prima dei governi Conte I e Conte II, per capire gli antefatti dell’incarico affidato a SuperMario. Si va dalla visione della mano pubblica generosa di Forza Italia e dei Cinquestelle alla miscela di ambientalismo, minor austerità e protezione sociale cercata da Bersani

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Può essere di qualche utilità, volendo seguire gli antefatti dell’incarico dato a Mario Draghi, ripercorrere le proposte di politica economica che si sono avute dal 2013 per arrivare al 2018 – da allora abbiamo avuto il Conte I e il Conte II, che analizzeremo poi.

Si avevano, dal 2013 al 2018, tre programmi.

Euroscettici che diventano eurofili
Nel caso di Forza Italia l’argomentazione euroscettica non poteva non tener conto della sua adesione al progetto dell’euro per tutto il tempo che – come Forza Italia prima e come Popolo della Libertà poi – aveva governato. Perciò per Forza Italia l’euro andava bene, ma a condizione che si fossero fatti «gli interessi dell’Italia». Ossia che si fosse abbracciata una politica fiscale espansiva, il che tradotto significa in deficit ma in una misura maggiore di quanto non fosse già avvenuto.

Possiamo affermare che Forza Italia pensava che, se si fosse cambiata la politica economica nell’Euro-area, essa da euroscettica avrebbe potuto diventare eurofila. A ben guardare la proposta di Forza Italia era la politica economica italiana di una volta, ma attuata a livello europeo: il bilancio pubblico in gran deficit per alimentare la domanda, con il finanziamento della banca centrale di una parte del deficit, il tutto combinato con una moneta debole in grado di spingere le esportazioni. (Si noti che per effetto del coronavirus siamo più o meno giunti dove Forza Italia desiderava).

Eurofobici ed euroscettici
Il Movimento Cinque Stelle non aveva, a differenza degli altri, una storia da giustificare. Non aveva mai governato, e perciò non aveva mai aderito agli accordi internazionali che hanno portato alla formazione dell’Euro-area. La proposta era: il Paese è governato da una Kasta che fa solo i propri interessi; fanno parte della Kasta quelli che costituiscono la base del vecchio potere, quindi istituzioni, imprese, sindacati, grandi media, eccetera; non fanno parte della Kasta tutti gli altri, e i non-Kasta hanno a disposizione la Rete per parlarsi e le Piazze per mostrarsi, così si ha un sistema orizzontale che si contrappone a quello verticale della Kasta; poiché la Kasta è irriformabile, i non-Kasta entrano nell’arena politica per prendere il potere, che sarà di tutti; i cittadini eletti che rappresentano i non-Kasta devono rigorosamente rappresentarli – perciò torna il vincolo di mandato; la proposta economica, mai circostanziata, poteva essere giudicata sia eurofobica sia euroscettica.

In linea di massima era stata delineata nei sei punti programmatici al “V-day” del dicembre 2013. Si aveva infatti: un referendum per la permanenza nell’euro; l’abolizione del Fiscal Compact; l’adozione degli eurobond; l’alleanza tra i Paesi mediterranei per una politica comune; gli investimenti in innovazione e nuove attività produttive esclusi dal limite del tre per cento annuo di deficit di bilancio; i finanziamenti per attività agricole finalizzate ai consumi nazionali interni.

Questa proposta non è mai (è un caso?) stata circostanziata, perché, se si vuole uscire dall’euro non si possono avere gli eurobond, così come non si possono avere questi ultimi, anche stando nell’euro, con l’eliminazione dei vincoli di bilancio dei Paesi membri.

Eurofili sostituiti dagli euroscettici parziali
Si contrapponeva a questa visione della mano pubblica generosa di Forza Italia e del Movimento Cinque Stelle – ossia, la spesa in deficit con finanziamento monetario e con la condivisione del rischio grazie agli eurobond – quella di Letta e poi del corso renziano del Partito democratico, che possiamo definire come euro fila. Prima ancora avevamo avuto un approccio simile con Monti. La visione contrapposta si presenta nel Partito democratico per la prima volta nel 2013 con Bersani ma non passa, e poi torna in auge nel 2018.

In precedenza, con le elezioni del 2013, non era emerso un vincitore – il Partito democratico aveva la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. Il programma di Bersani, che possiamo definire eurofilo con venature euroscettiche, sosteneva, per avere una maggioranza stabile al Senato con i Cinquestelle, una miscela di: minor austerità da realizzarsi con maggiori investimenti pubblici; miglior protezione sociale; tagli ai costi della politica; energia verde; matrimoni civili più aperti. Tutti punti che potevano incontrare il favore del Movimento cinque stelle. Punti che non sarebbero stati troppo diversi, se nel 2018 fosse passata l’idea di un accordo fra il Partito democratico e i Cinquestelle. La premessa dell’accordo cercato da Bersani era che «l’aggiustamento di debito e deficit sono obiettivi di medio termine, poiché l’immediata emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione».

Inutile dire che il coronavirus ha ribaltato molte cose, ma questo lo vedremo poi.

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