Chiudere i classici? Rinunciare a insegnare latino a scuola? In Italia è un argomento buono per riempire i buchi dei giornali estivi, tema di polemiche infinite tra nostalgici del liceo e pragmatici. Ogni anno qualcuno lo rilancia, un altro replica, si applaude e ci si indigna e poi, quando è tempo, si passa ad argomenti più importanti.
In America invece la questione è presa sul serio. Anche perché non si parla di cancellare qualche ora alle superiori, bensì di mettere fine ai dipartimenti stessi di Lettere Antiche, chiudere con i curricula basati su greco e latino e restituire gli esperti ai loro settori specifici: archeologia, linguistica, letteratura.
Le ragioni per farlo sono diverse. Quella più superficiale è l’appropriazione di alcuni simboli della cultura classica da parte dell’estrema destra americana. La riproposizione ignorante di stili, slogan e formule dell’antichità, mitologia spicciola compresa, non certo è una novità (soprattutto per gli italiani, che lo hanno vissuto negli anni ’30). In occasione dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio si sono visti elmetti romani con la scritta “Trump 2020”, o bandiere con ricamata la frase di Leonida, il generale spartano delle Termopili Molon labe (Vieni a prenderli).
In questi contesti la cultura, o meglio subcultura, classica diventa un serbatoio di massime ed exempla da impiegare per le proprie finalità politiche, se si possono definire così.
È un problema, sostiene Dan-el Padilla Peralta, professore di storia romana a Princeton, anche se – riconosce – è quello meno importante. Per ogni abuso del passato (e questo ne è senz’altro un esempio) ci sono schiere di professori e studiosi pronti a fare correzioni, smantellare miti e false interpretazioni e a stabilire nuovi percorsi di indagine. Da tempo, del resto, le materie classiche hanno perso (o cercano di perdere) quell’aura elitaria che si erano auto-attribuite nei secoli passati. L’approccio è scientifico (almeno nei metodi), senza retorica e idealismi. Sono scesi dal piedistallo e nessuno si sogna più di pensare all’eccezione greca.
Ma per Padilla non basta. A suo avviso i classici non meritano di avere un futuro perché, sostiene lui, nascono per perpetuare il dominio razziale bianco. È un aspetto fondativo, connaturato, essenziale. La monumentalizzazione della civiltà antica del periodo neoclassico ha sostenuto l’invenzione della «bianchezza» (e viene citato l’antiquario tedesco Johann Joachim Winckelmann: «L’unico modo per diventare grandi è di imitare i Greci») e ha funzionato da lasciapassare morale per il colonialismo e la sopraffazione delle altre popolazioni. Il tutto escludendo l’eredità egizia ed ebraica nel proprio campo di studi, come aveva sottolineato il celebre libro “Atena nera” di Martin Bernal, che aveva già sollevato la questione, pur tra mille inesattezze storiche e linguistiche (anzi: diecimila).
Padilla, nato in Repubblica Dominicana, è uno dei pochi accademici di colore del ramo. Il suo percorso di avvicinamento al mondo della cultura greca e latina, che lo ha portato a ricoprire posizioni importanti nel mondo dell’accademia è sempre stato visto con sospetto da amici e parenti. Una cosa da bianchi, gli dicevano. «Come ci aiuterà studiare questo?». Le sue risposte, diplomatiche, puntavano sul gusto stesso della rivendicazione, come fosse una sorta di appropriazione culturale al contrario.
Tuttavia nel corso degli anni, lo studio della materia e la frequentazione degli ambienti lo hanno portato a maturare un certo scetticismo al riguardo. Gli studi classici sono inguaribili. Si possono solo abbattere.
Come si diceva, al confronto le polemiche postprandiali sul latino alle superiori che si fanno in Italia sono poca cosa al confronto. Ma almeno sono proporzionate. Le posizioni di Padilla, che riceve anche un ritratto su New York Times come «l’uomo che salverà le materie classiche» sono estreme, ideologiche e tagliate con l’accetta.
Ricordare che insieme alla sopraffazione dell’uomo bianco la cultura classica ha portato anche a due rivoluzioni (quella americana e quella francese), per esempio, che costituiscono tuttora i miti fondativi della cultura occidentale non è poca cosa, anche solo tralasciando l’origine e il recupero di concetti come democrazia e repubblica e il fatto che (cosa che da conoscitore della cultura romana dovrebbe sapere) lo stesso Seneca fosse contrario alla schiavitù.
Anche alcuni colleghi, che pure ammirano il suo lavoro, prendono le distanze. Mary Beard, che insegna studi classci a Cambridge ed è tra le più trasgressive figure nel campo, considera inaccettabili le posizioni di Padilla. «Condannare la cultura classica è un atteggiamento semplicistico. Tanto quanto venerarla», ha spiegato al New York Times. «La mia linea è sempre stata diversa, cioè che è un dovere dell’accademico fare sì che le cose si mostrino più complicate di quanto non sembri». Del resto, anche se il mondo del classicismo «può venire politicizzato, non contiene politica al suo interno». È la posizione opposta a quella di Padilla. Il mondo classico è «una tradizione che contiene la lingua dell’autorità», che può essere utilizzata «per liberare o per opprimere». Ma non è l’autorità.
Forse quella di Padilla è un questione di mira: attacca bersagli innocui non potendo (o non volendo) cercarne altrove. Il razzismo sistemico americano è un problema complesso, a più strati e con poche soluzioni. Quella di tirare spallate a una disciplina già debole di suo e messa in discussione ogni estate dai giornali in Italia non sembra promettere granché.