Poiché Andrea Scanzi è più generoso di quanto i detrattori siano disposti a riconoscergli, ieri ha intervistato sulla sua pagina Facebook quello Scanzi d’insuccesso che è Alessandro Di Battista.
In quanto cosa, non mi è chiaro. In quanto belloccio terzomondista? In quanto organizzatore di picnic casalinghi con uso di Instagram? In quanto ex deputato?
È stato bellissimo, nonché con perfetti tempi televisivi. Scanzi ha esordito definendo l’imminente conferenza stampa di Vito Crimi all’uscita dall’udienza concessagli da Draghi come «questa coincidenza, che ovviamente è del tutto casuale», e ha avuto il tempismo di concludere la diretta un paio di minuti prima dell’uscita di Crimi dalle stanze di Draghi: era come essere di nuovo negli anni Ottanta, coi palinsesti e un universo ordinato (che nostalgia).
Naturalmente Scanzi era compiaciutissimo. Non sono un’assidua frequentatrice delle sue apparizioni ma intuisco lo sia piuttosto spesso, questa volta però ci teneva a rimarcarlo. «Condividete il più possibile questa diretta perché sicuramente usciranno delle notizie e delle dichiarazioni che faranno discutere»; «immagino che abbia sotto casa tutte le troupe che lo vogliono ma, bontà sua»; «immagino che qualche giornalista me l’ha anche giurata perché la faccio al posto loro»; «grazie a te che hai accettato, Ale, so che c’era la fila»; «so che si è appena collegata la maratona Mentana»; «ogni tanto guardo il telefono perché stanno arrivando i lanci di ciò che mi stai dicendo» – eccetera.
Per il resto, questa conversazione tra uno scrittore di successo e un ex deputato è stata piena di citazioni, giacché i due fanno parte della mia disastrata generazione: gente che è contenta solo se può fare riferimenti alla propria cultura popolare di formazione. E quindi Scanzi che dice «credo che tutti voi avreste detto: che cavolo stai dicendo, Andrea», con rimando al «che cavolo stai dicendo, Willis» di Harlem contro Manhattan, il telefilm dei pomeriggi degli anni 80 che ci fa sentire comunità, noialtri disastrati; e le comiche di Benny Hill usate come metafora dell’atteggiamento rispetto al recovery fund da Di Battista.
E poi Di Battista che è rimasto agli studi liceali di quegli anni lì, e quindi dice che ci vogliono far mandare a memoria la lettera di Draghi al Financial Times, «neanche fosse Marzo 1821», e insinua che il Pd «disfacesse di notte la tela, come Penelope» (la tela nella similitudine dibattistiana la tesseva Conte, quindi il riferimento non è proprio precisissimo: maturità, t’avessi preso prima).
È stata anche pienissima di quel che, farò quella della mia generazione e citerò, in Pulp Fiction si chiamava «farsi i pompini a vicenda». Campionario incompleto: «A volte lo hai criticato ma sei stato sempre molto corretto» (Scanzi a ADB); «sei stato l’unico corretto, per certi versi, Alessandro» (idem); «constato il tono molto conciliante delle tue critiche»; ma soprattutto, Di Battista a Scanzi, allargando il campo della partouze agli assenti: «a Travaglio il giorno dopo il referendum scrissi che per me si era comportato come un patriota».
A un certo punto Di Battista – uno che dice «giornaloni», una parola rivelatoria d’un deficit di pensiero quant’altre mai; ma anche uno che invece di «divario» dice «gap», ma lo pronuncia «ghep» – inizia a parlare di sé in terza persona, e poco dopo gli viene la stessa cadenza di quando Guzzanti imitava albertosordianamente Rutelli. È un bellissimo momento, che qui trascrivo: «Se osa Di Battista, un libero cittadino che non sta neanche in parlamento, ricordare l’acquisizione Mps, cos’è: blasfemia?».
Renzi pare una loro comune ossessione, che l’intervistato sintetizza dicendo che quello vorrebbe «l’Italia sempre più suddita degli Stati Uniti d’America»; mentre lui, Ale (posso chiamarlo «Ale»?), non vuole «essere suddito di nessuno»: che Di Battista su Facebook sia la Sigonella che quest’epoca può permettersi?
O forse è il Pasolini che possiamo permetterci, e infatti ci spiega di essere «convinto che Gianni Letta sia stato l’artefice di questa operazione, non ho le prove ma ho molti sospetti».
Insomma, Di Battista vota «no» su Rousseau, tutto ciò che può fare non avendo più un ruolo, e un’ora di diretta serviva a dircelo (è a questo che serve, l’internet: a darci un’ora di diretta per ogni cliccatore di Rousseau). Ma è servita anche a dirci: che coi fondi del Mes potremmo creare aziende farmaceutiche pubbliche come a Cuba (allora ditelo che rivolete il comunismo); che bisogna nazionalizzare le autostrade (quante volte posso citare lo stesso Guzzanti?); che Di Battista prima di dormire guarda l’ultima intervista a Borsellino; che, se Di Battista si percepisce «irriverente», dev’esserne grato a Beppe Grillo che si fece cacciare dalla Rai (grande è la confusione sotto il cielo dello streaming).
È stata un’ora utilissima per studiare l’evoluzione da reality d’una classe dirigente che si esprime come un tronista, e che, dopo i quarant’anni, dice senza mettersi a ridere le cose che a 15 scrivevamo sui diari con l’uniposca: «Ognuno ha le proprie ambizioni, la mia principale ambizione è essere libero», ha detto a un certo punto Di Battista, il Bruce Chatwin che possiamo permetterci.
L’unica domanda alla quale questa diretta non ha fornito risposta è: ma perché Di Battista non ha anelli? Hanno tutti vistosi anelli, i quaranta/cinquantenni che modellano l’immaginario politico di questo povero paese, da Scanzi a Cruciani, da Formigli a Saviano. Perché Di Battista no? È una domanda che mi tiene sveglia nelle notti in cui Di Battista guarda Borsellino. Come ha sospirato ieri Scanzi in risposta a «L’accoltellatore è diventato un genio», «D’altra parte abbiamo la stampa che abbiamo».