C’è una categoria di persone vulnerabili che rischia di diventare invisibile durante la campagna di vaccinazione in Italia. Sono i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti irregolari: oltre mezzo milione di persone in Italia, di cui 200mila in fase di regolarizzazione.
Nel 2020 – nonostante il Covid – 34.154 migranti sono giunti in Italia via mare (il 60% a Lampedusa), il triplo rispetto agli 11.471 del 2019. In 4.100 sono invece arrivati via terra attraverso il confine italo-sloveno. Ventimiglia rimane comunque il confine più comune da attraversare per i migranti in Italia. Sono 12mila le persone respinte al confine solo nei primi nove mesi del 2020.
Invece i casi confermati di persone positive nei centri di accoglienza italiani sono stati 239 su 59.648 ospiti censiti, cioè lo 0,38 per cento del campione esaminato, secondo il primo studio pubblicato ad agosto dall’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti. Solo 62 persone sono state ricoverate e non si è registrato nessun decesso. Nelle strutture di detenzione ci sono stati circa 70 casi e alcuni ricoveri. Un numero tutto sommato buono. Poi però più nessun dato è stato fornito nelle successive ondate del virus.
Il conteggio di casi e decessi tra i migranti è complicato. Tutti i volontari e gli esperti intervistati dalle associazioni umanitarie in Bulgaria, Francia, Grecia e Italia concordano: le condizioni di salute sono spesso così compromesse che a nessuno importa del Covid e, se lo fanno, non c’è praticamente modo di testare le persone che si spostano nel nostro continente.
Stranieri accolti in strutture collettive, senza documenti o permesso di soggiorno, i cittadini comunitari in condizione di irregolarità, gli apolidi, una parte della popolazione Rom e Sinti (160mila unità). Un mondo complesso e variegato di persone invisibili da un punto di vista amministrativo che di fatto non hanno un medico di famiglia e hanno difficoltà di accesso al Servizio sanitario nazionale.
In Italia il numero delle somministrazioni fatte fin qui è di circa 3 milioni, mentre il governo italiano punta a raggiungere i 19 milioni di vaccinati entro giugno. La precedenza è data agli operatori sanitari e agli ospiti delle residenze per anziani (Rsa); poi gli over 70 e le persone che soffrono di patologie croniche, immunodeficienze o disabilità; a seguire insegnanti, forze dell’ordine, operatori dei servizi pubblici essenziali, personale carcerario e detenuti; infine il resto della popolazione.
Dei migranti però si è detto ben poco. Da un punto di vista normativo non mancherebbe nulla. Il Piano nazionale vaccini anti covid 19 prevede la vaccinazione di «tutte le persone presenti sul territorio italiano, residenti, con o senza permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione». Le leggi internazionali prevedono anche che spetti ai paesi ospitanti garantire l’accesso alle cure – e dunque anche alle vaccinazioni – a tutte le persone presenti sul loro territorio. Finché queste persone si trovano in Italia, pertanto, è il governo che deve italiano tutelare la loro sicurezza. In più, la stessa Agenzia italiana del farmaco ha dato un’ampia flessibilità amministrativa per la somministrazione anche in assenza di documenti di identità e tessera sanitaria.
Peccato che la questione sia decisamente più complessa. A lanciare l’allarme sono le associazioni che aderiscono al Tavolo immigrazione e salute (Tis), tra le quali Caritas, Emergency, Medici senza frontiere, Associazione Studi Giuridici Immigrazione (Asgi), Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm). Per prenotare il vaccino bisogna infatti iscriversi a una piattaforma nazionale o regionale, dal proprio medico o in altro luogo, tramite il codice fiscale o la tessera sanitaria. Prassi affatto scontata per molti rifugiati. A ciò si aggiungono le maggiori difficoltà di accesso ai servizi sanitari e le barriere linguistiche che molti migranti, in quanto irregolari, non posso risolvere facendo affidamento alle strutture d’accoglienza.
«Gli istituti di accoglienza sono avvantaggiati: fanno parte di una rete di gestione e devono rispettare determinati parametri. Devono fornire gli elenchi degli ospiti da sottoporre al tampone o, più recentemente, al vaccino e poi attendere il proprio turno. Gli ostacoli sono molti, ma tutto sommato, almeno per i tamponi, ogni cosa è andata per il verso giusto», spiega Peppe Monetti, responsabile dell’accoglienza e dell’assistenza legale di Casa della Carità di Milano. Il problema tuttavia sopraggiunge per coloro che sono rimasti fuori da questo circuito: «Con la pandemia e le norme da rispettare abbiamo dovuto diminuire i posti di accoglienza. Chi si è ritrovato fuori, senza domicilio o senza il medico di base, fa davvero fatica in questa fase», continua Monetti.
A Milano, per esempio, si sono formate molte ronde di volontari che forniscono beni di prima necessità ai migranti in difficoltà, ma sopratutto assistenza sanitaria e tamponi facoltativi. La stessa Casa della carità, con fondazione Caritas Ambrosiana, Culturale San Fedele e l’Associazione San Fedele onlus – Assistenza sanitaria hanno stretto un accordo di partenariato e ideato un programma di assistenza con la possibilità di fare un tampone antigenico rapido qualora i migranti svantaggiati presentino sintomi sospetti.
Tutto ciò è anche frutto della distruzione del sistema di accoglienza diffusa dei migranti nei CAS da Nord a Sud. Il rapporto “Il sistema a un bivio”, realizzato da ActionAid e Openpolis, rivela infatti che un terzo delle prefetture ha riscontrato difficoltà nell’assegnare i posti in accoglienza. Il capitolato di gara incentiva i centri di accoglienza di grandi dimensioni a scapito di quelli piccoli e distribuiti sul territorio, aumentando così, fra le altre cose, il rischio di contagio da coronavirus.
Questo è il caso della comunità di Vicofaro. Il centro di accoglienza gestito da don Massimo Biancalani a Pistoia che si basa solamente sul sostegno di privati e che contava, prima della pandemia, più di 200 migranti ospitati. Vicofaro per un periodo è stata letteralmente svuotata per evitare il rischio del diffondersi del contagio, ma oggi i migranti che non trovano posti dove vivere sono tornati. «Siamo circa centocinquanta, e la situazione è molto rischiosa», confessa don Biancalani. «Per quanto riguarda i tamponi, possiamo fare affidamento sul sostengo di un gruppo di medici in pensione e sull’assistenza settimanale di alcuni dottori dell’ospedale di Pistoia. Questo però non toglie che i ragazzi si muovono, vanno spesso a Firenze e Prato in cerca di lavoretti occasionali, e sopratutto vivono tutti a stretto contratto», continua Biancalani. I migranti alloggiano all’interno dei locali della parrocchia in ambienti affollati: uno attaccato all’altro e in brandine arrangiate.
Sul fronte vaccini, invece, nulla si è mosso per loro. «Non siamo stati contattati, non ci hanno spiegato nulla. La nostra accoglienza è di carità quindi fuori dai meccanismi comunali. Perciò sono convinto che questi ragazzi saranno gli ultimi a ricevere il vaccino», chiosa Biancalani. A meno che in ogni Asl non si individui un medico di riferimento per queste persone, o uno sportello sburocratizzato a cui anche le associazioni possano indirizzare i soggetti socialmente più fragili, il vaccino per i migranti “invisibili” rimane una questione complessa.
Nel frattempo, la pandemia di Covid-19 ha portato con sé vari problemi aggiuntivi e ha aggravato condizioni di vita già difficili per le popolazioni migranti (Dossier Immigrazione 2020, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS). Nonostante la percentuale di contagi tra migranti e cittadini d’origine straniera in Italia è scesa al 3 per cento della popolazione, dalle statistiche Amsi (Associazione Medici di origine Straniera in Italia), emerge che tra questi soggetti cresce sempre più il bisogno di un consulto psicologico (30 per cento) e aumentano le patologie articolari e vertebrali (50 per cento) per motivi di stress e sovrappeso.
«Alcuni sono ragazzi giovanissimi che arrivano da noi traumatizzati dal viaggio o dalle torture subite – puntualizza Biancalani. Altri, invece, a causa della lingua, della lontananza da casa o del crudo impatto con una realtà diversa da quella immaginata, finiscono per fare abuso di alcol e droghe per poi cadere in gravi forme di depressione. In questo periodo la situazione di molti si è aggravata, sia a causa dell’isolamento forzato sia per la perdita di quei lavoretti che gli permettevano di spedire del denaro alla famiglia».