Mai citato Giuseppe Conte. Né il Movimento 5 stelle. Tantomeno l’alleanza strategica e gli altri arzigogoli di questi anni. Ma non è che zitto zitto Nicola Zingaretti sta cambiando linea nel più perfetto stilema comunista del rinnovamento nella continuità? Forse è chiedere troppo a un segretario che negli ultimi mesi ha sbagliato previsioni, linea, scelte: fatto sta che nella riunione della Direzione di ieri, Direzione forse troppo caricata di attese (ma d’altra parte il Pd ribolle da tutte le parti), il numero uno dem ha rinviato la ciccia politica alla Assemblea nazionale del 13 marzo.
Ieri, malgrado i boatos messi in circolazione dal Nazareno, non c’è stato nessun annuncio di dimissioni, di congresso, niente di niente, tutto lo spazio giustamente se l’è preso «la ferita e la battuta d’arresto» (Zingaretti dixit) dell’assenza di donne nella triade di ministri consegnata a Mario Draghi, rigorosamente uomini-capicorrente. Autocritica ma nemmeno tanto. Elenco di 10 proposte per promuovere una effettiva parità di genere da consegnare al governo. Tutto bene. Ma là fuori il mondo è parso a molti distante anni luce: «Una relazione surreale», ci ha detto un importante segretario regionale.
Di qui il dubbio di cui dicevano all’inizio: non è che un Zingaretti in evidente difficoltà anche psicologica – fra lapsus e tweet infelici – punta a salvare il salvabile rispolverando l’idea, in fondo non esplosiva, di porre il Pd al centro del suo lavoro senza girovagare fra questa o quella geometria politicista?
Forse lo dice tanto per dire, ma è un fatto che Zingaretti abbia ripreso a parlare di partito a vocazione maggioritaria che come tale non appalta ad altri il compito di parlare a pezzi di società italiana, come a voler chiudere la triste fase del Conte federatore di un fronte popolar-populista insieme a Grillo e Di Maio: e che d’altra parte tutte le fumisterie legate all’epoca dell’avvocato del popolo e di Rocco Casalino siano ormai diradate, buone giusto per riempire i mémoires del Portavoce, è pura evidenza.
Addirittura nella relazione del segretario non c’è più traccia del proporzionale – non tollerato da Salvini – anche se non ci sono segni di un clamoroso ritorno maggioritario: e per forza, dato che il principale alleato, il M5S, deflagra in mille pezzi e varrà a dire tanto il 10%. Bisogna dunque cambiare schema anche se il primo a non sapere esattamente quale sembra proprio Zingaretti, che preferisce, al solito, seguire gli eventi anziché provare a determinarli.
La scelta di rinviare le scelte ha stupito molti. Nemmeno un indizio di come si vuole affrontare il malessere di parte della base, lo stupore di tanti elettori dinanzi a un Pd che subisce le scelte altrui incassando colpi round dopo round come Muhammad Alì contro George Foreman: solo che alla fine Alì venne fuori e stroncò lo stanchissimo avversario.
Nicola non sembra Cassius e ci si domanda, anche non polemicamente, cosa abbia in testa per reggere molti mesi, se non qualche anno, ancora alla guida del partito, come intenda reagire alle botte infertegli da tutte le parti (un uomo politico una cosa non può fare: lamentarsene), in che modo voglia disporre il Pd a una battaglia mediatica e politica contro un sempre arrembante Matteo Salvini, che ha più seguito di lui e senza lacerare la tela di Draghi, come pensa di superare un modello di partito ormai fondato sulle caserme correntizie, e come, last but not least, intenda recuperare un rapporto con il centro riformista non solo parlamentare ma disseminato nelle professioni, nelle università, nella cultura. Per le ardue sentenze si deve aspettare. Mentre le donne se la prendono col doppio incarico di Andrea Orlando, mentre gli avversari del segretario annotano un’altra battuta a vuoto.